Quello che non siamo diventati – Tommaso Fusari

SINTESI DEL LIBRO:
Le diciassette e trenta.
Fuori il sole stava per tramontare, e la strada sotto la finestra era
invasa dal traffico dell’ora di punta. Lavavetri al semaforo. Clacson
infastiditi perché qualcuno non era abbastanza veloce a ripartire
quando scattava il verde. Bambine con il grembiule bianco che
uscivano dal doposcuola, tenendo la mamma per mano e
raccontandole la giornata. Ne sentì una dire che quel giorno Andrea le
aveva dato un bacio sulla guancia. Lo disse con una vocina titubante,
come se temesse che la madre potesse rimproverarla. Sara si sporse
poco poco dalla finestra del piccolo ufficio giusto in tempo per vederle
allontanarsi, ridendo insieme e svoltando l’angolo. Spense il computer
e si stiracchiò sulla sedia, strofinandosi un occhio. Radunò le sue cose
e diede una sistemata alla scrivania. Dall’altro lato della stanza,
Francesca si stava legando i capelli per la dodicesima volta, con i polsi
che si muovevano sicuri mentre trafficava con l’elastico azzurro, poi
posò i gomiti sulla scrivania e con le dita si massaggiò le tempie.
Sbuffava e cercava di venire a capo di qualcosa che in quel momento
non ne voleva sapere di risultarle comprensibile.
«Tutto okay, Fra?» le chiese.
«Tutto okay un cazzo, queste griglie le hanno fatte per le aquile, sto
diventando cieca.» Si lasciò sfuggire un gemito platealmente disperato
mentre si abbandonava sullo schienale. Si tolse gli occhiali senza
montatura e li lasciò cadere sui fogli.
«Mi servirebbero sei mesi di ferie» disse poi risolutiva.
«Secondo me, se li chiedi ad Alex te li dà sicuramente.»
«Sì, e magari me ne dà altri sei dopo le ferie, così, per riprendermi.»
Risero insieme.
«Be’, io vado, devo ancora fare la spesa.»
«Ma tu ogni tanto dormi, Sara?» le chiese Francesca mentre
recuperava gli occhiali.
«Ogni tanto.»
«Sei sempre a mille, sempre di corsa. Okay, hai ventisei anni e sei
giovane e arzilla, però davvero dovresti rilassarti un po’.»
«Tu dici?»
«Dico, dico. Secondo me ti ci vuole una bella serata alcolica.»
«Naaa, non amo tanto gli alcolici.»
«Dici così perché non hai mai provato come si dorme bene, dopo
un paio di cocktail fatti come si deve.»
«Dici che aiuterebbero?»
«Potremmo provare. Magari una sera di queste ce ne andiamo da
qualche parte, che dici?»
Sara la guardò mentre impilava i fogli su cui stava imprecando fino
a pochi minuti prima.
«Mi fai da spirito guida?» rispose infine.
«Sfrutterò la mia saggezza da trentenne veterana ribelle per
guidarti nei sentieri della perdizione.»
«Okay, Virgilio, ci vediamo domani, va bene?» Cominciò a cercare
le cuffiette nella borsa.
«Te ne vai?» disse una voce in tono severo, dall’altro lato della
stanza.
Sara alzò lo sguardo dalla borsa. Alex, il suo capo. Se ne stava
appoggiato allo stipite della porta, il completo impeccabile, senza
nemmeno l’ombra di una piega.
«Oh, Alex, io… sì, stavo per… avevi bisogno per caso…?» Lui
rilassò il volto e le sorrise. Sara incrociò per un attimo lo sguardo di
Francesca, che in quel momento era un misto fra una teenager davanti
ai suoi idoli e una pallida imitazione di Sharon Stone in Basic Instinct.
«Sto scherzando. A proposito, la pratica che ti ho consegnato
stamattina, davvero un bel lavoro» disse avvicinandosi alla sua
scrivania, e le fece l’occhiolino; lei, un po’ imbarazzata, abbassò lo
sguardo per un attimo, poi gli sorrise ringraziandolo. Alle spalle di
Alex, Francesca se la rideva maliziosamente.
«A domani, allora» proseguì.
«A domani.»
Alex salutò con lo sguardo Francesca e girò sui tacchi, uscendo
dall’ufficio.
«E quell’occhiolino? Ehh?» fece Francesca non appena fu sicura che
Alex si fosse allontanato del tutto.
«Cosa?»
«Quello ci prova, cara»
«Ma smettila.»
«Dammi retta. Lo sai…»
«Lo so, lo so, “trentenne veterana ribelle”.»
«Esatto.»
Sara fece un sospiro, poi spense la lucetta vicino al portapenne,
prese il giacchetto di jeans (abbastanza inutile, visto il caldo che ormai
aveva invaso le strade di Roma) e uscì.
Le porte dell’ascensore si aprirono accompagnate da un suono
metallico. Salutò la ragazza della reception e si ritrovò in strada.
L’aria di giugno la investì.
Il semaforo era verde, e le macchine sfrecciavano veloci su viale
Marconi, i motorini facevano zig-zag rischiando persino di travolgere
i pedoni fermi sul ciglio del marciapiede. C’era odore di pollo fritto
che proveniva dalla rosticceria dall’altro lato della strada, mentre i
tavolini del bar accanto all’ufficio erano tutti occupati, sotto
ombrelloni giganti che riparavano dal sole che ancora picchiava forte.
Si incamminò verso la fermata dell’autobus, rovistando nella borsa
alla ricerca del cellulare. Un venditore ambulante le chiese di
acquistare un pacco di calzini. Digitò il numero di Michael e rimase in
attesa.
Quasi non sentì gli squilli per via di tutto quel rumore che la
circondava.
Due squilli.
Tre squilli.
Niente.
Quattro squilli.
Allontanò il cellulare dall’orecchio, sbuffando. In quel momento
arrivò l’autobus, che si fermò con un lungo stridìo prima di aprire le
portiere con un soffio secco.
Nelle cuffie risuonò dolcemente Cleopatra dei Lumineers, l’asfalto
sollevato dalle radici e devastato dalle buche faceva vibrare l’autobus
come un frullatore. Sara osservava pensierosa i palazzi tutti uguali,
grigi e scrostati, le serrande degli appartamenti che cominciavano a
salire dopo essere rimaste abbassate per tutto il giorno, e forse
qualcuno già stava preparando la cena, anche se era presto, una cena
più impegnativa, forse quella bambina col grembiule bianco avrebbe
aperto la porta di casa con la madre e avrebbe scoperto che il papà era
già tornato e aveva preparato una cremina al sesamo da spalmare
sopra i crostini.
Forse.
Provò di nuovo a chiamare Michael, ma neanche stavolta rispose.
L’autista suonò insistentemente il clacson per motivi sconosciuti. Una
coppia di ragazzi chiacchierava reggendosi ai corrimano dell’autobus,
stavano facendo una lista di ciò che serviva per la serata. Lui spesso
ripeteva cose della lista già dette, ma lei non glielo faceva notare.
Ridevano. Sara riconobbe il distributore dell’Agip lungo la strada e
spinse il pulsante per prenotare la fermata. L’autobus rallentò, per poi
inchiodare di colpo. Le portiere si aprirono, chiese permesso a un
signore che aveva con sé un trolley un po’ ingombrante. C’era un po’
di vento adesso, un vento caldo, i capelli di Sara erano come
impazziti, un furgone era fermo in doppia fila e due uomini
corpulenti erano intenti a scaricare grossi scatoloni, bestemmiando e
sputando per terra. Una signora anziana trascinava un carrellino dal
quale spuntava della verdura. Il semaforo pedonale diventò verde,
Sara si incamminò fissando il cellulare come se aspettasse la chiamata
di Michael, che però non arrivò.
Era da un po’ che Michael non arrivava più.
Lei si era detta tante volte che era solo questione di tempo, che il
tempo serviva sempre, nel bene e nel male. A lui era toccato il male, e
il tempo lo aveva reso quello che Sara non si sarebbe mai aspettato: un
posto vuoto. Uno di quei posti che dovrebbero essere occupati dalla
persona più importante di tutti, ai compleanni, a un matrimonio, a
una cena per festeggiare un traguardo raggiunto. Un posto che lasci
libero fino all’ultimo perché sicuramente verrà, aveva detto che
sarebbe venuto, bisogna solo avere pazienza. Poi le luci si spengono,
la musica finisce, non c’è più niente da festeggiare, e quel posto è
rimasto vuoto per tutta la sera.
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