Il sangue dell’Impero – Simon Scarrow

SINTESI DEL LIBRO:
CAPITOLO UNO
Febbraio, 51 d.C.
La colonna di cavalieri arrancava lungo il sentiero che conduceva
alla cima della piccola altura quando il comandante alzò una mano
segnalando di fermarsi, e tirò le redini. La pioggia recente aveva
trasformato il terreno in una distesa sconnessa e dissestata di fango
appiccicoso, e i destrieri della cavalleria sbuffavano e ansimavano,
mentre i loro zoccoli venivano catturati dal pantano. Nell’aria fresca
risuonava lo scalpiccio bagnato dei cavalli che rallentavano per poi
fermarsi, soffiando sbuffi di fiato umido. Il comandante indossava
uno spesso mantello rosso sopra il pettorale splendente,
attraversato da bande annodate che stavano a indicare il suo grado.
Era il legato Quintato, comandante della Quattordicesima Legione,
responsabile della difesa della frontiera occidentale della provincia
della Britannia, recentemente annessa all’impero.
Non era un compito facile, rifletté amaramente fra sé. Erano passati
ormai otto anni da quando l’esercito era sbarcato sull’isola che si
trovava ai confini del mondo conosciuto. A quel tempo, Quintato era
un tribuno poco più che ventenne, pervaso dal senso del dovere e
dal desiderio di conquistare gloria per se stesso, per Roma e per il
nuovo imperatore Claudio. L’esercito si era fatto strada combattendo
verso l’entroterra, sconfiggendo la potente forza messa insieme dalle
tribù indigene, sotto il comando di Carataco. Battaglia dopo battaglia,
avevano sopraffatto i nativi, finché, alla fine, le legioni erano riuscite
ad annientare i guerrieri dopo una strenua, ultima resistenza davanti
alla loro capitale, Camulodunum.
Lo scontro era sembrato decisivo a quel tempo. Lo stesso
imperatore era giunto per assistere alla vittoria. E ne aveva
rivendicato il pieno merito. Dopo che i capi di gran parte delle tribù
native avevano stretto accordi con l’imperatore, Claudio era tornato
a Roma per reclamare il suo trionfo e annunciare alla folla che la
conquista della Britannia era completata. Solo che non era vero. Il
legato si accigliò. Tutt’altro. La battaglia finale non aveva piegato la
volontà di Carataco di resistere. Gli aveva semplicemente insegnato
che era avventato scatenare i propri valorosi ma scarsamente
addestrati guerrieri contro le legioni, in una lotta all’ultimo sangue. Il
capo dei Britanni aveva imparato a giocare più astutamente,
tendendo imboscate alle colonne romane e inviando gruppi di rapidi
incursori a razziare le linee di rifornimento e gli avamposti delle
legioni. C’erano voluti sette anni di campagne per spingere Carataco
tra le montagne inespugnabili in cui vivevano le tribù dei Siluri e degli
Ordovici. Erano genti bellicose, spronate dalla furia fanatica dei
druidi, e determinate a resistere alla potenza di Roma fino all’ultimo
respiro. Avevano accettato Carataco come loro comandante e quel
nuovo polo della resistenza aveva attratto da ogni angolo dell’isola
guerrieri che nutrivano un profondo disprezzo per Roma.
Era stato un inverno rigido, i venti freddi e la pioggia ghiacciata
avevano costretto l’esercito romano a limitare le proprie attività
durante i lunghi mesi bui. Solo verso la fine della stagione, le basse
nubi e la foschia si erano diradate nelle regioni montagnose oltre la
frontiera, permettendo alle legioni di riprendere la campagna contro i
nativi. Il governatore della provincia, Ostorio Scapula, aveva ordinato
alla Quattordicesima di spingersi nelle valli boschive e costruire una
catena di forti. Sarebbero serviti come basi per l’offensiva principale,
prevista in primavera. Il nemico aveva risposto con una rapidità e
una ferocia che avevano sorpreso il legato Quintato, attaccando
gran parte delle schiere che egli aveva inviato nelle sue terre. Due
coorti di legionari, quasi ottocento uomini. Il tribuno al comando della
colonna aveva inviato un cavaliere al legato nel momento in cui era
iniziato l’attacco, richiedendo sostegno immediato. Alle prime luci del
mattino, Quintato aveva guidato il resto della legione fuori dalla base
di Glevum e mentre gli uomini si avvicinavano al forte, lui era andato
avanti in ricognizione insieme a una scorta, con il cuore oppresso dal
timore al pensiero di ciò che avrebbero potuto trovare.
Al di là della piccola altura si stendeva la vallata che si addentrava
nei territori dei Siluri. Il legato tese le orecchie, sforzandosi di non
prestare attenzione ai rumori dei cavalli alle sue spalle. Ma non
riusciva a udire alcun suono davanti a sé. Né i colpi sordi e ritmici
delle asce dei legionari che abbattevano gli alberi per procurare
legname, per la costruzione del forte e per creare un ampio cordone
di terra sgombra intorno al fosso perimetrale; né le voci dei soldati
che riecheggiavano lungo i declivi su entrambi i lati della vallata. E
nemmeno il rumore della battaglia.
«Siamo arrivati troppo tardi», mormorò a mezza voce. «Troppo
tardi».
Si irritò per non essere riuscito a tenere per sé i suoi timori e si
guardò rapidamente intorno, nel caso le sue parole fossero state
udite. Gli uomini della scorta più vicini a lui sedevano impassibili in
sella. No, si corresse. Non impassibili. C’era ansia nei loro sguardi,
mentre gli occhi saettavano lungo il paesaggio circostante alla
ricerca di qualche traccia del nemico. Il legato tirò un profondo
respiro rincuorante e fece un ampio gesto in avanti con il braccio,
colpendo leggermente i fianchi del c\avallo con i calcagni. Il destriero
avanzò, muovendo a scatti le orecchie appuntite, come se
percepisse il nervosismo del suo padrone. Il sentiero tornò in piano
e, un attimo più tardi, il cavaliere in testa alla colonna ebbe la visuale
sgombra sull’imboccatura della vallata.
Il cantiere si trovava a circa un miglio di distanza. Un ampio spiazzo
era stato sgombrato dai pini e i ceppi si stagliavano come denti rotti
nella terra smossa. Il profilo del forte si distingueva ancora, ma nel
punto in cui avrebbero dovuto esserci un profondo fossato, un
bastione e le palizzate, c’era soltanto un mucchio disordinato di
legname bruciato, insieme a carri carbonizzati e ai resti delle file di
tende, le cui protezioni in pelle di capra erano state strappate e
calpestate nel fango. Molti settori del baluardo erano stati distrutti e il
terreno e le fondamenta di legno erano crollati nel fossato. C’erano
anche dei corpi: uomini, muli e cavalli. I cadaveri erano stati spogliati
e, vista da quella distanza, la carne pallida rievocò alla mente del
legato l’immagine delle larve. Rabbrividì al pensiero e lo allontanò in
fretta dalla sua testa. Sentì gli uomini trattenere il fiato davanti a
quello spettacolo e udì qualcuno borbottare imprecazioni,
osservando la scena. Il suo cavallo rallentò e si fermò, e Quintato
piantò rabbiosamente i talloni nei fianchi dell’animale, facendo
schioccare le redini per spronarlo al galoppo
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