Ora sei una stella – Luigi Garlando

SINTESI DEL LIBRO:
L’Ambrogio stava giocando con uno di quei televisorini che spaccano gli
occhi, il ghemboi. Suonò il telefono. Si alzò a rispondere.
«È per te, nonno.»
Poi è tornato sul divano a uccidere i mostri con i pollici.
Era il Prof, che non mi ha telefonato neanche quando sono andato
all’ospedale a farmi mettere le pile al cardio. Strano.
«È morto il Giacinto» mi ha detto.
Ho messo giù.
Ho spostato la tendina della finestra e ho visto un passero che si staccava
da un ramo del liquidambar facendo cadere una foglia che era ancora verde.
L’autobus per il cimitero di Lambrate è ripartito dalla fermata di fronte senza
fare rumore.
Poi – ricordo benissimo, come fosse ora – una sensazione strana, quasi un
rumore. Come l’acqua che riprende a scorrere nelle tubature, quando
riaccendi i caloriferi. Ho sentito gli occhi umidi e istintivamente ho portato
una mano sotto il mento, convinto di dover raccogliere della sabbia o del
calcare.
Era da ventinove anni che non piangevo, da quel pomeriggio in via Folli,
quando un operaio costruì senza cura il muretto di mattoni davanti alla bara
della Tilde. Pensavo di averle piante tutte lì le mie ultime lacrime, alle 16.17
del 13 giugno 1977. Pensavo che le lacrime fossero come le diottrie che a un
certo punto ti escono dagli occhi, finiscono e ciao. Mica si ricaricano.
L’Ambrogio, forse incuriosito dal mio silenzio, è venuto alla finestra e mi
ha avvertito: «Nonno, stai piangendo».
Mio nipote ha otto anni e non mi ha mai visto piangere. Per lui sono un
eroe. Sa che ho fatto la guerra e ho attraversato la Russia a piedi con Peppino
Prisco. Un giorno mi ha visto uscire di casa con un dito nel fazzoletto, senza
un lamento o una goccia sul viso. Tutta colpa della radio, una domenica
pomeriggio.
Stavo ascoltando le partite nella caverna, mentre tagliavo un pezzo di legno
per farne una cornice da tela, e mi ha distratto un gol dell’Inter. Quasi
sicuramente un gol preso, visto l’andazzo dei tempi. Chissà perché uno pensa
che a guardare la radio si capiscano meglio le parole. Comunque, io alzai lo
sguardo verso il transistor e la sega circolare mi attraversò il dito medio della
mano sinistra.
Ero convinto che in casi del genere si dovesse sentire molto più dolore.
Invece – davvero, mica per fare il bauscia – la smorfia che mi venne sulla
faccia era soprattutto di fastidio, per l’incidente che interrompeva il lavoro e
per tutto quel rosso che si allargava sul tavolo. Io il rosso lo odio.
Avvolsi le falangi nel fazzoletto e passai da casa per avvisare.
«Vado a farmi riattaccare un dito» spiegai a mio figlio, mostrando il
fazzoletto.
Lui sbiancò come un’ostia: «Papà… ti accompagno io».
E andò giù lungo, come Griffith davanti a Benvenuti.
Non ho mai capito bene che lavoro faccia mio figlio. Le due o tre volte che
gliel’ho chiesto, ha tagliato corto: «Compro, vendo…». Compra e vende cose
che non si vedono, ma deve farlo molto bene perché, qualche settimana fa,
l’Ambrogio mi ha mostrato una rivista inglese che aveva suo padre in
copertina. Mio nipote parla già l’inglese come Roy Hodgson e tra le parole
che mi ha tradotto c’erano anche queste: “Pescecane della finanza”.
Tilde, abbiamo messo al mondo un pescecane.
Mi hanno sempre raccontato che i pescecani, appena vedono il sangue, si
caricano come tori, invece mio figlio quel giorno svenne come un salame.
«Ci pensi tu a rianimarlo?» chiesi a Carole, la mia nuora svizzera, accorsa
dopo il tonfo del marito. «Io faccio un salto al San Raffaele.» Che dalla nostra
villetta di Milano 2 dista cinque minuti di pedalate.
Il mezzo dito non me lo riattaccarono. Ora ho un buco tra l’indice e
l’anulare. Quando metto la mano sinistra fuori dal finestrino sembra sempre
che faccia le corna. La gente probabilmente non ci fa caso, ma io uso la
sinistra per salutare quelli che mi stanno sui maroni e la destra per tutti gli
altri. Milanisti e juventini, sempre con la sinistra.
Ambrogio si esaltò per l’episodio e appena gli arrivò a tiro uno di quei
temi, tipo “Racconta una persona che ammiri”, riempì quattro facciate. Ci
rimase malissimo, quando la maestra gli restituì il foglio con un giudizio
severo: “Il lavoro richiedeva una descrizione realistica, non un fumetto
fantastico”.
Il giorno dopo presi la bici e raggiunsi la maestra, una signorina
occhialuta, di quelle che ogni notte sognano di fuggire in moto con un preside
alto e moro, vestito da Ufficiale e Gentiluomo. Le mostrai la mano cornuta
per riabilitare il tema dell’Ambrogio.
Invece di scusarsi, rilanciò: «D’accordo, ma ha rivestito l’incidente con
troppa immaginazione: il dito nel fazzoletto, lei che va all’ospedale in bici da
solo, a ottantaquattro anni…».
Le spiegai che era vero anche quello.
Non si arrese: «Deve ammettere, comunque, che suo nipote spesso esagera
con la fantasia. O vuole convincermi che Ambrogio sta costruendo per
davvero un razzo nel giardino di casa?».
Mi arresi io, davanti al suo sorrisino da sacerdotessa del Vero: «Signorina,
io sarei preoccupato se i bambini la usassero poco la fantasia, non troppo. Tra
qualche anno si sforzeranno di renderli tutti uguali e ci riusciranno. Se ora
riescono a creare tanti piccoli mondi, uno diverso dall’altro, non
spaventiamoci: godiamoceli, perdio. Stia bene».
La salutai con la mano sinistra.
Per farla breve, Ambrogio rimase così impressionato per il mio pianto alla
notizia della morte di Facchetti che, quando mi vide vestito bene e gli dissi
che stavo andando al funerale di Giacinto, prese il berretto e decise: «Vengo
anch’io».
Voleva capire chi fosse quel tipo eccezionale che aveva fatto piangere il
nonno e che gli aveva dato più dolore di una sega circolare.
Naturalmente la Rot si oppose, puntando i pugni sui fianchi.
Rot sarebbe Fräulein Susanne, che Carole ha fatto arrivare da Zurigo
quando è nato Ambrogio. Io provai a mettere in discussione l’opportunità
dello sbarco, ma il Pescecane, che davanti alla moglie-avvocato mostra
dentini da latte, non accettò il dibattito: «Susanne ha grande esperienza. È
stata la tata di Carole».
Un assist, come neanche Beccalossi. «Appunto» ho risposto. «Vuoi che
Ambrogio cresca isterico come tua moglie e sbucci a uno a uno i chicchi d’uva
perché gli dà fastidio la pellicina?»
Rot è il diminutivo che le ha dato Ambrogio, ispirato dalla signorina
Rottermeier, precettrice dell’amica di Heidi. Per me, Rot è il diminutivo di
Rottweiler, perché, se la tata scopre il cadavere di un mio sigaro nel
portacenere o una “Gazzetta” in bagno, ringhia per tre quarti d’ora. Tiene i
capelli spartiti sulla fronte e schiacciati in testa da un cerchietto, come
Maldini e Nesta. E può sfiorare due stipiti in un colpo solo col suo culone da
Redondo. Veste rigorosamente di nero, come gli antichi arbitri, e se scruta in
cielo una nuvola che non le piace, grandina cinque minuti dopo.
«Ambrogio deve studiare la lezione sui Fenici» mi ricordò Rot, sbarrando
idealmente la strada che portava all’uscio. Una specie di sit-in di protesta, ma
in piedi.
Ambrogio attaccò: «I Fenici erano un’antica popolazione semitica, che
abitava la striscia costiera della Siria, tra Libano e Mediterraneo orientale.
Sono ritenuti i più esperti navigatori dell’antichità».
«Le città più importanti?» chiese la tata.
«Arados, Tripoli, Berito, Tiro, Sidone» rispose mio nipote alla grande.
«Formarono tutte Stati indipendenti, poi assoggettati da Assiri, Egizi e da
Alessandro Magno.»
Respinta dal piccolo cervellone, Rot rivolse di nuovo lo sguardo su di me:
«Il signore gradisce essere avvisato se Ambrogio esce di casa per motivi
imprevisti».
La dribblai secco, alla Wilkes: «Fräulein, il signore l’ho messo al mondo io.
Capirà».
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