Niente è vero, tutto è possibile – Peter Pomerantsev

SINTESI DEL LIBRO:
A bordo di un volo notturno, in procinto di atterrare a Mosca si può vedere
chiaramente come la città sia formata da una serie di circonvallazioni
concentriche al cui centro si trova il complesso del Cremlino. Alla fine del XX
secolo, le luci provenienti dalle strade della capitale creavano solo un tenue
bagliore giallastro. Mosca era una triste città satellite ai confini dell’Europa,
che rimandava gli ultimi fuochi dell’impero sovietico. Poi, nel XXI secolo, è
successo qualcosa: è arrivato il denaro. Mai una simile quantità di denaro
aveva invaso un luogo così piccolo in così poco tempo. Il sistema orbitale si
spostò. Viste dall’alto, le circonvallazioni concentriche hanno iniziato a
risplendere delle luci dei nuovi grattacieli, delle insegne al neon e delle
Maybach che sfrecciavano sull’asfalto, vorticando sempre più velocemente in
un riverbero abbagliante e ipnotico da luna park. I russi costituivano il nuovo
jet set: erano i più ricchi, i più forti e i più pericolosi. Possedevano la maggior
parte del petrolio, le donne più belle e si concedevano le feste più sfrenate.
Passarono dal bisogno di acquistare qualsiasi bene e prodotto a essere
compratori munifici e rapaci: squadre di calcio di Londra e compagini di
baseball di New York; gallerie d’arte, quotidiani inglesi e aziende europee
fornitrici di energia. Nessuno riusciva a comprendere i nuovi russi. Erano allo
stesso tempo rozzi e raffinati, astuti e ingenui. Sembravano aver senso solo a
Mosca, una città che viveva con il fast forward inserito, sottoposta a
mutamenti così rapidi da frantumare ogni senso di realtà e in cui le giovani
leve diventavano milionarie in un battito di ciglia.
Performance era la parola d’ordine in città, un mondo nel quale i
gangster diventano artisti, gli arrampicatori sociali citano Puškin, e gli Hells
Angels si reputano santi. La Russia aveva assistito all’avvicendarsi in rapida
successione di tanti mondi diversi – comunismo, perestrojka, terapia
economica d’urto, miseria, oligarchia, Stato della mafia, dominio dei super
ricchi – da far credere ai suoi nuovi eroi che la vita non fosse altro che uno
scintillante ballo in maschera in cui ogni ruolo, posizione o convinzione era
intercambiabile. «Voglio interpretare ogni ruolo che il mondo abbia
conosciuto», mi avrebbe detto Vladislav Mamyshev-Monroe. Era un
performance artist, nonché il beniamino della città, l’immancabile ospite
delle feste a cui partecipavano gli immancabili tycoon con le loro super
modelle, alle quali si presentava travestito da Gorbačëv, da fachiro, da
Tutankhamon o da Presidente russo. La prima volta che sono atterrato a
Mosca ho pensato che queste infinite trasformazioni fossero l’espressione di
un paese da poco liberato che provava i diversi travestimenti in una smania di
libertà, che spingeva i limiti della propria personalità fino all’estremo, fino a
quello che il visir del Presidente avrebbe definito «le vette della creazione».
Solo alcuni anni più tardi sono arrivato a capire che queste mutazioni
continue non sono una forma di libertà ma di delirio, in cui marionette
inquietanti e mistici da incubo si convincono di essere quasi reali e marciano
verso quella che il visir del Presidente continua a chiamare «la quinta guerra
mondiale, il primo conflitto non lineare di tutti contro tutti».
Ma mi sto spingendo troppo in là.
Lavoro nella televisione. Documentari. Documentari d’intrattenimento,
a essere precisi. Nel 2006 ero su un volo per Mosca perché il settore
televisivo, come qualsiasi altro, stava vivendo un boom incontrollato.
Conoscevo già il paese: dal 2001, l’anno dopo la laurea, avevo vissuto nella
capitale per la maggior parte del tempo, saltando da un lavoro all’altro: da
membro di un think tank a consulente di basso livello su progetti europei che
avrebbero dovuto aiutare lo sviluppo del paese, dalla scuola di cinema fino
alla mia ultima occupazione, assistente alla produzione di documentari per i
network occidentali. I miei genitori erano fuggiti in Inghilterra negli anni
Settanta come esiliati politici, e io sono cresciuto parlando una specie di russo
popolare per emigrati. Ma sono sempre stato un grande osservatore del mio
paese d’origine. E volevo avvicinarmi: Londra sembrava così limitata, così
prevedibile; l’America in cui molti nostri parenti si erano trasferiti sembrava
un paese soddisfatto; mentre i russi parevano davvero vivi, avevano la
sensazione che tutto fosse possibile. Ciò che volevo davvero era fare il
regista. Volevo puntare la videocamera e girare. Così comprai una Sony Z1,
una videocamera in metallo, abbastanza piccola da entrare nella mia borsa e
seguirmi dappertutto. Il più delle volte filmavo soltanto per non lasciare che
questo mondo mi sfuggisse; giravo alla cieca, consapevole del fatto che non
avrei mai più avuto a disposizione un cast del genere. Ed ero molto richiesto
nella nuova Mosca, per il semplice fatto che potevo pronunciare le parole
magiche: «Sono di Londra». Funzionavano come un «apriti, sesamo». I russi
sono convinti che i londinesi conoscano il segreto alchemico della televisione
di successo e che siano in grado di creare il prossimo reality show o talent
che otterrà una fama planetaria. Non importava il fatto che fossi stato solo un
assistente di infimo livello in progetti altrui: mi bastava sussurrare «sono di
Londra» per ottenere un appuntamento con chiunque desiderassi. Ero una
sorta di clandestino nella grande armata della civiltà occidentale – banchieri,
avvocati, consulenti, contabili e architetti che avevano issato le vele per
cercar fortuna nella grande avventura della globalizzazione.
Ma, in Russia, per lavorare nella televisione non basta essere un
osservatore. In un paese attraversato da nove fusi orari e che si estende su un
sesto della superficie emersa del globo, dal Pacifico al Baltico e dal Circolo
Polare Artico ai deserti dell’Asia Centrale, dai villaggi quasi medievali nei
quali gli abitanti attingono ancora l’acqua dai pozzi con il secchio alle città
nate intorno a un singolo stabilimento industriale, per arrivare ai grattacieli di
vetro e acciaio della nuova Mosca, la televisione è l’unico mezzo che può
collegare, governare e tenere unita la nazione. E in quanto produttore
televisivo, io sarei stato inviato nel suo centro nevralgico.
La mia prima riunione mi condusse all’ultimo piano dell’Ostankino, il
centro di produzione televisiva grande quanto cinque campi da calcio che
costituisce l’ariete della propaganda del Cremlino. All’ultimo piano, alla fine
di una serie di corridoi neri, si trova un’enorme sala riunioni. Qui le menti più
brillanti di Mosca si incontravano per la seduta settimanale durante la quale si
sarebbero decisi i contenuti da trasmettere in tutto il paese. Io ci andai
insieme a un editore russo con il quale avevo un rapporto amichevole. Per via
del mio cognome russo, nessuno aveva intuito che fossi inglese. E io avevo
tenuto la bocca chiusa. Nella stanza c’erano più di venti persone: abbronzati
giornalisti televisivi nelle loro immacolate camicie di seta, politologi dalla
barba sudata e dal respiro pesante, dirigenti in scarpe da ginnastica. Nessuna
donna. Tutti fumavano. C’era così tanto fumo che mi prudeva la pelle.
A un capo del tavolo era seduto uno dei più famosi conduttori di
trasmissioni politiche, un tizio minuto che parlava velocemente e con la voce
roca: «Sappiamo benissimo che non si tratterà davvero di politica. Ma
dobbiamo comunque dare ai nostri spettatori l’impressione che qualcosa stia
accadendo. Hanno bisogno di essere intrattenuti. Quindi, con cosa possiamo
giocare? Attacchiamo gli oligarchi? Chi è il nemico questa settimana? La
politica deve essere come... un film!»
Quando il Presidente prese il potere nel 2000, per prima cosa pose sotto
il suo controllo la televisione. Era attraverso di essa che il Cremlino decideva
quali figure politiche avrebbero interpretato il ruolo di «oppositori» e quali
dovessero essere la storia, le paure e la coscienza del paese. E il nuovo
Cremlino non avrebbe commesso gli errori del passato sovietico: non avrebbe
mai permesso che la televisione diventasse noiosa. L’obiettivo era quello di
ottenere una sintesi tra il controllo sovietico e l’intrattenimento occidentale.
L’Ostankino del XXI secolo coniuga lo show business con la propaganda, gli
indici di ascolto con l’autoritarismo. E al centro del grande spettacolo si trova
il Presidente in persona, creato dal potere della televisione a partire da un
signor nessuno, un grigio poliziotto, in modo che potesse assumere
rapidamente, come un performance artist, i diversi ruoli richiesti: soldato,
amante, cacciatore a torso nudo, uomo d’affari, spia, zar, superuomo.
«L’informazione è l’incenso attraverso il quale benediciamo le azioni di Putin
e facciamo di lui il Presidente», amavano dire i produttori e i politologi.
Seduto in quella stanza piena di fumo, avevo la sensazione che in qualche
modo la realtà fosse malleabile, che io fossi insieme a novelli emuli di
Prospero in grado di proiettare qualsiasi realtà desiderassero sulla Russia
post-sovietica. Ma anno dopo anno, nel corso della mia esperienza lavorativa
in Russia, tutti – dal Cremlino in giù – diventavano sempre più paranoici, le
strategie di Ostankino sempre più contorte, e il bisogno di incutere panico e
timore sempre più urgente. La razionalità era stata esclusa, i sostenitori del
Cremlino e i seminatori d’odio ottenevano il prime time per tenere la nazione
in estasi, distratta, mentre un numero sempre più consistente di mercenari
esteri giungeva in Russia per aiutare il Cremlino a diffondere la sua visione
del mondo.
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