Nelle foreste siberiane – Sylvain Tesson

SINTESI DEL LIBRO:
La Heinz vende almeno quindici tipi di salsa. Nel supermercato di
Irkutsk ci sono tutti: non so quale scegliere. Ho già riempito sei
carrelli di pasta e Tabasco. Il furgone blu mi aspetta. Miša, l’autista,
non ha spento il motore; fuori il termometro segna -320. Domani
partiamo da Irkutsk; impiegheremo tre giorni per raggiungere la
capanna, sulla riva occidentale del lago. Oggi devo completare gli
acquisti. Scelgo la «super hot tapas» della Heinz. Ne prendo diciotto
bottiglie, tre per ogni mese.
Quindici tipi di ketchup. Sono proprio queste cose che mi hanno
fatto venire la voglia di allontanarmi dal mondo.
9 febbraio
Sono sdraiato sul letto in casa di Nina, in via dei Proletari. Mi
piacciono i nomi delle strade russe. Nei villaggi si trova «via del
Lavoro», «via della Rivoluzione di Ottobre», «via dei Partigiani» e,
qualche volta, «via dell’Entusiasmo», dove passeggiano pigramente
vecchie slave dall’aria grigia.
Nina è la migliore affittacamere di Irkutsk. Prima faceva la
pianista e si esibiva nelle sale da concerto dell’Unione Sovietica;
adesso tiene una pensioncina. Ieri mi ha detto: «Chi poteva
immaginare che un giorno avrei sfornato crêpes in quantità
industriali?». Il gatto di Nina fa le fusa sul mio ventre. Se fossi un
gatto saprei bene su quale ventre andare a scaldarmi.
Sta per avverarsi un sogno vecchio di sette anni. La prima volta
che sono andato sulle rive del Bajkal è stato nel 2003. Camminando
lungo il lago ho scoperto, a distanze regolari, delle capanne abitate
da eremiti che sembravano stranamente felici. Poco a poco è
maturato in me il progetto di rintanarmi tra quegli alberi, da solo, nel
silenzio. E adesso, sette anni più tardi, sono qui. Devo trovare la
forza di far scendere il gatto. Per alzarsi dal letto ci vuole un’energia
prodigiosa, soprattutto quando si tratta di cambiare vita. Chi non ha
avuto voglia di fare dietro-front proprio quando tutto quello che
desiderava era lì, a portata di mano? Al momento decisivo certi
uomini si tirano indietro. Temo di essere anch’io di quel tipo.
Il furgone di Miša è stracarico. Per arrivare al lago viaggeremo
per cinque ore attraverso la steppa gelata, navigando sulle creste e
negli avvallamenti di una distesa di onde pietrificate. Il fumo sale dai
rari villaggi annidati ai piedi delle colline, vaporetti incagliati sui
fondali bassi. Davanti a spettacoli come questi, Malevič ha scritto:
«Chiunque abbia attraversato la Siberia non potrà mai più aspirare
ad essere felice». Al culmine di un dosso, appare il lago. Ci
fermiamo a bere. E dopo quattro bicchieri di vodka la domanda è: in
virtù di quale miracolo la linea del litorale avvolge con tanta
perfezione il contorno delle acque?
Liberiamoci subito delle statistiche. Il Bajkal: settecento chilometri
di lunghezza, ottanta di larghezza, un chilometro e mezzo di
profondità. Venticinque milioni di anni. D’inverno il ghiaccio
raggiunge uno spessore di un metro e dieci. Il sole se ne infischia di
questi dati: irraggia amore sulla superficie bianca. Le nuvole filtrano i
raggi, un gregge di placche lucenti scivola sulla neve: la guancia del
cadavere si accende.
Il camion comincia ad avanzare sul ghiaccio; sotto le ruote, un
chilometro di profondità; se finiamo in un crepaccio, si inabisserà nel
buio. I corpi scivoleranno fuori senza rumore. La lenta nevicata degli
annegati. Il lago è la cripta ideale per chi teme la putrefazione.
James Dean diceva che dopo la morte bisogna lasciare «un bel
cadavere». Piccoli crostacei, Epischura Bajkalensis, ripuliranno il
corpo in ventiquattro ore. Sul fondo resterà solo l’avorio delle ossa.
10 febbraio
Abbiamo pernottato nel villaggio di Chužir sull’isola di Ol’chon (si
pronuncia Olkhron, alla nordica) e ora procediamo verso nord. Miša
non apre bocca. Mi piacciono le persone taciturne: mi sforzo di
immaginare i loro pensieri.
Sto andando verso il luogo dei miei sogni. L’atmosfera è lugubre.
Il freddo ha sciolto i suoi capelli al vento; mulinelli di neve corrono
davanti alle ruote. La tempesta s’insinua nello spazio libero tra
ghiaccio e cielo. Guardo la riva, cerco di non pensare che mi accingo
a passare sei mesi tra queste foreste da requiem. E l’iconografia
siberiana della deportazione, gli ingredienti ci sono tutti: l’immensità,
la luce livida, il ghiaccio simile a un sudario. Degli innocenti sono
stati gettati in questo luogo da incubo per venticinque anni. Io invece
ci vado volontariamente. Di che mi lamento?
Miša: «Triste».
Poi è il silenzio fino all’indomani.
La mia capanna è a nord della riserva Bajkal-Lena. In origine era
il rifugio di un geologo, costruito negli anni Ottanta e nascosto in una
radura tra i cedri. Si direbbe che gli alberi abbiano dato il nome alla
località: «capo dei Cedri del Nord». Cedri del Nord sembra il nome di
una casa di riposo. Dopo tutto si tratta proprio di un ritiro dal mondo.
Attraversare un lago su quattro ruote è una trasgressione. Solo i
ragni e gli dèi camminano sulle acque. È la terza volta che ho
l’impressione di violare un tabù: la prima è stata quando ho guardato
il fondale del mare di Aral prosciugato dall’Uomo, la seconda quando
ho letto il diario di una donna e la terza quando sono passato con un
furgone sulle acque del Bajkal. Ogni volta mi è parso di lacerare un
velo: l’occhio che spia dal buco della serratura.
Cerco di spiegarlo a Miša. Non risponde.
Stasera facciamo tappa alla stazione scientifica di Pokojniki, nel
cuore della riserva.
I guardiani sono Serghej e Nataša, belli come divinità greche, ma
più vestiti. Vivono qui da vent’anni dando la caccia ai bracconieri. La
mia capanna è a cinquanta chilometri dalla loro, in direzione nord.
Sono contento di averli come vicini. Mi farà piacere pensare a loro. Il
loro amore è un’isola nell’inverno siberiano.
Abbiamo passato la serata con dei loro amici, Saša e Jura,
pescatori siberiani che sembrano usciti da Dostoevskij. Saša è un
iperteso roseo e vitale; ha uno sguardo duro, annidato in fondo a
due occhi da mongolo. Jura è cupo, rasputiniano, nutrito a pesci del
fango; ha la pelle livida degli abitanti di Mordor, la terra descritta da
Tolkien. Il primo è destinato ai gesti clamorosi, l’altro alle
cospirazioni. Jura non va in città da quindici anni.
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