Mosche, cavallette, scarafaggi e Premio Nobel – Luigi Garlando

SINTESI DEL LIBRO:
La Sala dei Concerti del Conservatorio di Stoccolma è magnifica e
colorata come la bandiera della Svezia: azzurri i tappeti e i parati, gialli
gli addobbi floreali, margherite, mimose, garofani… Sono fiori arrivati da
Sanremo, la città in cui morì Alfred Nobel nel 1896. Un giornale francese,
per errore, lo aveva dato per morto già otto anni prima. In realtà si era spento
suo fratello Ludvig. Il cronista scrisse: “È morto il chimico svedese,
inventore della dinamite, che diventò ricco trovando il modo di uccidere
molte persone nel più breve tempo possibile”.
Alfred si impressionò per la falsa notizia: «È così quindi che verrò
ricordato». Perciò nel testamento istituì il premio che porta il suo nome ed è
per questo che ancora oggi noi lo ricordiamo. Ed è per questo che siamo qui,
in questa magnifica sala azzurra e gialla, illuminata da lampadari fiabeschi.
Oggi, 10 dicembre, data della morte di Alfred Nobel, è uno dei giorni più
corti dell’anno.
Io sono seduto al centro della platea, in mezzo ad altri settecento frac con
farfallini bianchi, come imposto dal rigoroso codice della cerimonia.
Nelle prime file della platea, a sinistra, sono raccolti i capi di Stato e le
autorità più importanti; a destra i parenti dei premiati. Sono gremiti anche i
palchi infiorati, occupati da banchieri, industriali e da signore eleganti,
cariche di gioielli.
In tutto, mi hanno detto, gli ospiti sono mille e quattrocento. Fa
impressione vedere mille e quattrocento persone così elegantemente vestite
da sera alle quattro e mezza del pomeriggio. L’ora del bombardamento di
Amantea.
I reali di Svezia hanno già preso posto sul palco, applauditi da tutti i
presenti, e si sono accomodati in poltrona in attesa dei premiati.
Re Carlo XVI Gustavo indossa occhiali sfumati, un farfallino bianco e
sulla parte sinistra del frac, tra le tante onorificenze, anche due stelle
d’argento che sembrano da sceriffo.
La regina Silvia porta sui capelli la tiara di Napoleone: una bellissima
corona di quindici pietre d’ametista circondate da diamanti, appartenuta un
tempo a Giuseppina, prima moglie di Bonaparte. Una collana con le stesse
pietre riprende il colore violaceo che tinge un vestito da favola. La gonfia
gonna promette balli a corte.
La noto solo in questo momento: una mosca. Una mosca si è posata sul
mio ginocchio destro, sui pantaloni del mio prezioso frac.
Fuori c’è la neve, è dicembre: come può sopravvivere una mosca
nell’inverno svedese? Mi viene il sospetto che questo insetto sia uno dei tanti
geni presenti nella Sala dei Concerti. Forse ha scoperto l’elisir di lunga vita o,
per lo meno, il modo per sopravvivere all’autunno e arrivare sana e salva fino
a Natale. Come insegna la Professoressa, non ha accettato passivamente il
proprio destino e ha lottato contro le avversità, irriducibile come un
muzzunaro, forte dei suoi valori. «Senz’olio contro vento.»
La vita è il più grande dei valori.
La osservo, complice e ammirato, ma vola via, spaventata dalla musica.
Ecco il grande momento. Sento un’accelerata al cuore.
Sulle note di Beethoven, fanno il loro ingresso trionfale i premiati. Sono
tutti uomini, con l’eccezione della Professoressa. E tutti vestono il frac, a
parte un signore di colore, alto, con la barba scura e una folta capigliatura di
riccioli. Indossa una camicia africana e pantaloni color nocciola rigati di
bianco che, in un altro contesto, avrei potuto scambiare per un pigiama.
Si alzano dai loro troni, i sovrani e i potenti della Terra in prima fila, e si
inchinano agli studiosi che sfilano sul palco tra gli applausi, in una lenta ed
emozionantissima processione.
Non c’è riconoscimento più prestigioso al mondo. Ogni anno il Nobel
premia le dieci intelligenze che, in campo scientifico, economico e letterario,
hanno apportato “i maggiori benefici all’umanità” con le loro ricerche, le loro
scoperte, le loro opere d’ingegno. I migliori sulla Terra. In più c’è anche un
Nobel per la Pace, nel nome dell’inventore della dinamite.
Il primo premio consegnato è quello per la Fisica. Va a tre ricercatori, il
più giovane ha solo trentanove anni e ne dimostra anche meno. Sembra uno
studente che ritira una buona pagella. Gli assegnano il Nobel per una scoperta
che ha fatto a venticinque anni. Alla sua età io volavo in America verso un
futuro sconosciuto.
Anche il riconoscimento per la Chimica va a una terna di studiosi, due
americani e un canadese.
Poi ci siamo…
Una voce gentile di donna annuncia il nome della Professoressa nella
Sala dei Concerti e legge la motivazione del premio: «La scoperta dell’NGF
all’inizio degli anni Cinquanta è un esempio affascinante di come un
osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos…».
Il re di Svezia si alza dalla poltrona e guadagna il centro della scena. Ma
non è meno regale la Professoressa che si è staccata dagli altri premiati e con
appoggi lenti e ritmati, da minuetto, sta raggiungendo il monarca, mentre tutti
i presenti si sono alzati ad applaudire.
Anch’io.
La Professoressa indossa un vestito di velluto scuro a tre tinte, stretto in
vita da una fascia profilata e con un collo alto che ricorda i colletti maschili
del Settecento, il secolo dei Lumi e delle scoperte. È verde scuro davanti, blu
pavone nelle maniche a sbuffo che nascondono le sue spalle strette. Lo
strascico, rosso prugna, accentua la sensazione che trasmette il suo corpo
minuto: una nuvola che scivola più che una persona che cammina.
La Professoressa accenna un inchino, quasi impercettibile, mentre porge
la mano al re di Svezia. Accoglie le congratulazioni del sovrano con un
sorriso sereno, senza aprire bocca, senza dire una parola. Piega solamente la
testa di lato, leggermente, un gesto che sembra di gratitudine e di felicità ben
controllata. Ha i capelli bianchi e vaporosi di una fata, con la solita onda, e
due occhi luminosi da bambina. Una fata bambina di settantasette anni.
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