Maydala Express – Davide Morosinotto

SINTESI DEL LIBRO:
Al ristorante cucinavano i bambini. Il cuoco li infilava in un forno grosso
come la caldaia di una locomotiva finché non erano cotti a puntino. A volte li
rinchiudeva in enormi calderoni con un po’ d’acqua, cipolla e sedano. A
volte, invece, ci metteva le olive.
— Non credo a una sola parola — disse Finally. Ma per nascondere la paura
si schiacciò sulla testa il vecchio berretto multicolore.
Nick il Secco sogghignò. — Invece è tutto vero. Toni Cacciavite è entrato
nella cucina del ristorante e il cuoco lo ha inseguito con un coltello grosso
così. Voleva tagliarlo a fettine e poi mangiarselo.
— Uuuh!
— Ah ah!
— A fettine! — esclamarono gli altri.
— Toni ha detto che la crema dei pasticcini era fatta con...
— Basta! — tagliò corto Finally alzandosi in piedi.
Nick il Secco scoppiò in una risata cattiva e i ragazzi lo imitarono nervosi.
Erano tutti magri, con i capelli unti di grasso, e stavano stretti gli uni agli altri
come topolini impauriti. Indossavano luride tute da lavoro della taglia
sbagliata sul cui petto spiccava uno Scambio Millescintille, il simbolo rosso
fiammante dei macchinisti della Speedster.
La salopette di Finally, invece, non aveva ancora nessun distintivo. Ma presto
le cose sarebbero cambiate.
— Allora io vado — esclamò la ragazza. Guardò Nick dritto negli occhi. —
Avete promesso. Se riesco a entrare nelle cucine del Forchetta d’Oro, mi
farete lavorare con voi. Riparerò le locomotive.
— Prima dovrai uscirne viva — la ammonì Nick. — E, come prova che sei
davvero stata lì, dovrai portarci il mestolo del cuoco.
— Sta bene — rispose Finally.
Ma non stava bene per niente.
Era quasi l’una di notte e la Stazione Grigia sembrava un castello infestato
dai fantasmi. Durante il giorno i pavimenti di marmo rimbombavano sotto le
scarpe di migliaia di viaggiatori e gli altoparlanti gracchiavano in
continuazione. Di notte, invece, c’era silenzio: lunghe ombre si stendevano
sui massicci convogli dei treni, addormentati sui binari, e le gargolle di pietra
ghignavano in cima a imponenti colonne. Sotto gli alti soffitti grigi regnava il
silenzio più totale, a mala pena disturbato dal brusio dei bambini che
lavoravano alla stazione.
— Allora? Vai o no? — la stuzzicò Nick il Secco.
Oltre la sua ombra magra, Finally guardò le luci gialle della stazione.
L’insegna al neon del Forchetta d’Oro lampeggiava minacciosa, come un
richiamo per falene.
E Finally sapeva benissimo che fine facevano le falene.
Deglutì e strinse i pugni.
Il ristorante non chiudeva mai, nemmeno la notte di Natale. C’era sempre
qualche uomo elegante seduto ai suoi tavoli, con il grande menu spalancato
davanti agli occhi, le unghie curate, un luccicante orologio d’oro e occhiali di
tartaruga. Quelli erano i viaggiatori importanti della Speedster. Portavano
valigette che avevano attraversato tutto il mondo, schizzando sui binari della
grande compagnia.
Alla stazione c’erano chilometri di marmo da rendere scintillante (ma anche
quando era scintillante era pur sempre grigio, quindi erano chilometri di
marmo grigio da rendere meno scuro). Per quasi dieci ore al giorno la ragazza
era rimasta inginocchiata a strofinare insieme agli altri bambini delle pulizie,
e intanto guardava i treni che ruggivano e partivano per mille destinazioni, i
cartelloni delle partenze che sfarfallavano di lettere, i giornali che venivano
sfogliati tutti insieme, i due leoni alla base delle scale e l’orologio rotondo,
come una grande moneta del tempo, appeso nel centro della stazione. Aveva
osservato le scarpe e gli orli dei pantaloni, gli affilati tacchi delle signore, i
merletti e le calze, le ruote delle valigie, il procedere frenetico dei facchini e
poi era salita con lo sguardo, sempre attenta a non farsi vedere (perché i
bambini delle pulizie dovevano essere invisibili, aveva spiegato loro la
signora Fufflon: non dovevano vedere né essere visti, come gli insetti che si
nascondono in casa), era salita con lo sguardo, vi dicevo, fino al ristorante,
alle sue finestre decorate di fiori di stucco, dai vetri offuscati che facevano
entrare la luce ma tenevano fuori il sole.
Dietro a quelle finestre scure Finally aveva ammirato l’interno della grande
sala da pranzo illuminata da candelabri, le pareti color sangue, i piatti di
madreperla, le montagne di ostriche sepolte dal ghiaccio, le aragoste
imprigionate negli acquari e i camerieri, rigidi e impettiti nelle loro marsine.
Finally aveva visto tutto quello e molto di più.
I camerieri del Forchetta d’Oro stavano giocando a carte al bancone del bar,
proprio accanto alla porta delle cucine, composta da due ante di ottone
consumate al centro, dove si appoggiavano le mani.
Finally tenne alto lo sguardo mentre si avvicinava. Sapeva di aver puntati alle
spalle gli occhietti di tutti gli altri: li sentiva come moscerini. Loro, quelli che
stavano sotto Nick il Secco, erano i meccanici dei treni. Gli unici che
sapevano ripararli. E avevano lo stemma dello Scambio Millescintille sulla
salopette.
Finally salì i gradini a uno a uno.
Attraverso i vetri vide che l’unico cliente del ristorante era seduto a un tavolo
in disparte e stava bevendo acqua minerale. Aveva i capelli brizzolati e spalle
larghe che parevano schiacciate dall’abito gessato che indossava. E portava
un grande anello alla mano destra.
«Posso farcela» pensò Finally pulendosi il naso con il dorso della mano.
«Devo solo seguire il piano.»
Entrare. Rubare il mestolo e uscire.
Si nascose dietro un vaso di fiori a poca distanza dal ristorante e rimase ad
aspettare trattenendo il respiro.
I suoi pensieri, però, erano così rumorosi che tintinnavano come soldi falsi.
«Mi chiamo Finally.»
«Non ho nessuno al mondo.»
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