L’interpretatore dei sogni – Stefano Massini

SINTESI DEL LIBRO:
Ero poco più che un bambino quando fui derubato di me stesso.
Avvenne in piena estate, in montagna. Il sole di giorno regnava,
dipinto, su un cielo pastello. Alloggiavamo in una pensione tu a
f
iori e legno, di quelle in cui perfino d’agosto ti sembra di percepire il
crepitio di una stufa accesa. Lì chiusi gli occhi come tu e le no i,
rimboccato in un lenzuolo che sapeva di lavanda. Tu o era limpido e
sereno in me, la vacanza rideva e con essa il creato. Eppure quella
no e vennero a rapinarmi. All’inizio fu perfino divertente: sognai di
avere un sosia. Era a tu i gli effe i un altro me stesso, a cui tu i si
rivolgevano. Io non esistevo più, c’era solo lui. Identico a me eppure
altro da me, così da prendere il mio posto. La sensazione di piangere
durante un sogno non è così rara. Di certo però non ti scordi
facilmente un pianto disperato, a diro o, da cui senti quasi d’esser
sopraffa o. Ebbene, fu così che quella volta piansi davanti alla
so razione di me stesso. Il sosia si stava prendendo ogni cosa,
chiamavano lui col mio nome, offrivano a lui il mio cibo. Non c’ero
più. Osservavo, sentivo, vedevo, ma per nessuno ero lì.
A distanza di tanti anni, devo a quel sogno la più nitida
impressione di quanto sia profondo il legame misterioso che ci tiene
stre i a noi stessi. Il possesso di sé. La coscienza di appartenerci. Il
senso quasi mai esplorato di abitare uno spazio solo nostro, proprio
e indiscusso, di cui abbiamo noi le chiavi. Il mio pianto di quella
lontana no e era in fondo la crisi di ogni uomo quando perde se
stesso. Mai nella vita ho toccato questo abisso così da vicino. E oggi
una parte di me sussurra che la ferita non si è mai del tu o chiusa: è
come se il mio studiare i sogni nascesse in qualche modo da quel
pianto, e dal senso non risolto di una so razione di sé.
Ma se lì fu l’origine del mio cercare, dov’è che mossi invece il primo
passo? Nel rime ere in ordine questa mole di appunti, mi sono
chiesto più volte dove fosse l’inizio. Ogni cosa d’altra parte ha un
inizio, e la mia discesa nel labirinto dei sogni non fa differenza: da
una scintilla nacque la fiamma, dalla fiamma divampò l’incendio.
Credo che la scintilla, in questo caso, sia scoccata nel mese di marzo
di molti anni fa, durante un consulto nella ci à di Lipsia, quando
anch’io a mio modo mi macchiai di furto. Derubai un collega di un
sogno. Ma lo feci in modo talmente bizzarro che la cosa non poté
non colpirmi: dopo aver ascoltato senza troppa a enzione il racconto
di un sogno di Delböuf che narrava di lucertole e di uno strano
modo di nutrirle, replicai esa amente lo stesso sogno. Era una forma
ridicola di appropriazione, dalla quale al tempo stesso mi sentivo
divertito e imbarazzato. Per cui al risveglio, senza una ragione esa a,
decisi di fermare per iscri o il mio bo ino:
In alta montagna, in un cortile al freddo davo da mangiare delle foglie a una
grande quantità di lucertole, e a ognuna dicevo il nome della pianta.
Chiusi il quaderno, e scordando tu o mi dedicai per la giornata al
mio consulto. Quando però mi trovai solo nella camera d’albergo,
quella sera, rilessi a voce alta le tre righe e conclusi che non
contenevano affa o l’impressione del mio sogno. Lo riassumevano,
certo. Ma non lo esprimevano. Quasi per gioco mi sforzai allora di
scendere nei de agli, riformulando il racconto:
Ero in montagna, in un cortile pieno di neve, quando vidi prima una sola
lucertola e poi una lunga fila. Pensai che avessero freddo e fame, per cui
presi una foglia da una pianta e le nutrii una per una. A ognuna dicevo il
nome della pianta, ed era un nome in latino.
Di nuovo rilessi gli appunti, e di nuovo non fui soddisfa o. Non era
il mio sogno, non lo era ancora, con tu o che la trama era quella. Mi
chiesi allora se il punto non fosse proprio questo: il sogno non aveva
bisogno di esser rilegato per forza in una trama: si componeva di
immagini, le quali – sommate – davano l’effe o di un racconto. Per la
g
q
terza volta allora ricominciai, isolando gli elementi come fossero
immagini singole:
1) CORTILE DI MONTAGNA CON NEVE
2) LUCERTOLE INFREDDOLITE
3) FOGLIE DI UNA PIANTA STACCATE COME CIBO
4) NOME IN LATINO DELLA PIANTA
Era questo il mio sogno? Adesso che ne avevo estra o l’essenza
come da un fru o, potevo dire di stringerlo in pugno? La risposta
era no. Mancava l’emozione, ecco. Mancavano i miei stati d’animo,
che concentrandomi avrei potuto ricordare passo per passo. Dunque,
per l’ultima volta, riprovai a trascrivere il sogno, sforzandomi di
isolare le immagini senza ome ere le mie sensazioni. Ed eccone il
fru o:
C’è il cortile di una casa.
È una casa di alta montagna, una baita.
Interamente coperto di neve.
Intirizzite, quasi sepolte dentro il bianco,
scopro due piccole lucertole.
Mi fissano, come mi chiamassero.
Le mani mi bruciano per il freddo.
Mi fissano. Come mi chiamassero.
Mi inchino.
Le raccolgo, le riscaldo.
La neve è ovunque.
Le mani mi bruciano per il freddo.
Adocchio una fessura dentro un muro,
so che là dentro staranno bene.
Ma prima di adagiarle,
stacco da una piccola pianta due o tre foglie.
Le stacco per fargliele mangiare.
Le labbra mi tremano, temo di non poter parlare.
Tu avia mi sforzo, e mi sento dire:
“Io ti nutro con l’Asperia ruta muraria”.
Lo so: ne sono ghio e.
Ed ecco, da so o la neve, ai miei piedi,
emergere un’altra lucertola.
E poi
un’altra e un’altra ancora. Una processione.
La neve è ovunque.
A ognuna io consegno una foglia:
“Io ti nutro con l’Asperia ruta muraria.”
“Io ti nutro con l’Asperia ruta muraria.”
“Io ti nutro con l’Asperia ruta muraria.”
Le mani mi bruciano per il freddo.
La neve è ovunque.
Questo era il mio sogno. Ora, la prima cosa che mi lasciò a onito fu
che anch’io, come Delböuf, non mi ero mai occupato di botanica, né
conoscevo le piante. Di più: provavo un ribrezzo istintivo per i re ili,
tu i quanti. In modo particolare per le lucertole. Dunque? Da dove
provenivano queste immagini? Da quale parte oscura del mio essere
prendeva forma la scena innevata di quel cortile? E sopra u o: per
quale assurda e tremenda regola del nostro umano esistere – per
quale ingranaggio sconosciuto della mia macchina mentale – io
definivo in sogno le foglie di felce non con un suono qualunque
posticcio, da ciarlatano – bensì con il loro nome, scientifico, da
manuale? L’unica piccola variazione rispe o al sogno del collega
stava in un gioco stupido di consonanti: la dicitura corre a della
pianta in latino era
Asplenium ruta muraria
laddove io ero certo di usare in sogno la variante
Asperia ruta muraria
Ma conclusi che era un errore perdonabile a un profano della
botanica. Ben più mi interessava la domanda più inquietante: chi
p
p
q
parla, in me, nei miei sogni? Chi entra nel mio corpo, ogni no e,
puntuale, dopo il trabocche o che ci fa chiudere gli occhi?
Esplorare i sogni. Esplorare i sogni è esplorare la parte più arcana di
noi, l’io che non sappiamo d’essere, l’essere che non sappiamo di
avere. L’altro da me, l’io che sono senza volerlo. L’io che respingo,
l’io che non comprendo. O forse solo l’io che non ha posto.
L’indomani del sogno, trovandomi a pranzo con due colleghi, il
discorso di uno di loro cadde su un certo paziente affe o da isteria le
cui crisi si scatenavano alla vista delle lucertole. È chiaro che il fa o
fu del tu o casuale. Ma ebbe in me una conseguenza ina esa.
Distintamente io sentii affiorare dentro di me – da una parte
sconosciuta – un brivido come di pericolo, una sensazione così
infantile e bambinesca di disagio per cui a stento nascosi l’agitazione
e il ba icuore che ne veniva. Sono certo che non avesse niente a che
fare col fa o che il mio sogno era in realtà proprietà di un altro: a
farmi tremare c’era il fa o che io – senza alcuna ragione logica
temevo che i colleghi sapessero il mio sogno, che lo avessero spiato.
E questo mi atterriva.
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