Left – Il bacio che aspettavo – Tania Paxia

SINTESI DEL LIBRO:
Fermo sul marciapiede, osservai l’auto che si allontanava nella
notte. Anziché reagire e passare all’azione, mi congelai. Ero
impietrito, non sentivo più nulla, soltanto i pensieri che mi
rimbombavano in testa. Non riuscivo a credere a quanto era appena
successo.
Mi ero dichiarato. Per la prima volta dopo… boh, non lo sapevo più
neanche io dopo quanto tempo. Avevo perso la testa, innamorandomi
di una ragazza dai capelli arancioni che costruiva chitarre. E mi ero
dichiarato, sì, ma lo avevo fatto anche nel momento più sbagliato.
Non avevo mai fatto una dichiarazione simile a una donna, però mi
ero rovinato sul finale, dicendole che sapevo chi era dalla prima volta
che l’avevo vista. E poi, be’, era scoppiata la bomba. Al ci aveva
interrotti proprio sul più bello e lei aveva capito tutto quanto da sola. Il
bassista aveva sfoggiato il tatuaggio e addio Frankie. L’avevo vista
sgranare gli occhi e scuotere la testa, incredula di fronte alla pura e
semplice verità, confermata peraltro anche da sua madre che ci
aveva raggiunti dietro le quinte del Walter Kerr Theatre. Era stata una
notte destinata a rimanere nella storia. Non per il concerto, ma
perché nella stessa sera, in una manciata di minuti, ero riuscito a
passare dall’euforia e dalla felicità più assolute all’angoscia più totale.
Dopo che Al le aveva rivelato che il padre che stava cercando da
anni era proprio lui, avevo trattenuto Frankie per il busto, altrimenti gli
si sarebbe scagliata addosso per fargli del male, come aveva fatto
con Eric Benson, al quale aveva assestato un bel pugno sulla faccia
da stronzo che si ritrovava. Eric se l’era meritato, eccome se se l’era
meritato. Ma Al no, non meritava lo stesso trattamento. A differenza
di Frankie, conoscevo la sua storia, e sapevo la marea di cazzate che
avevano raccontato sua madre e suo nonno. Frankie ignorava ancora
tante cose. Troppe cose, forse. Purtroppo se ne era andata via
ancora prima di scoprirle. Era fuggita in preda alla confusione e io
l’avevo inseguita nel vicolo sul retro del teatro, fregandomene di tutto
il resto e del fatto che fossi Jayden Maynard, leggenda vivente che
solitamente non si prendeva la briga di rincorrere proprio nessuno. In
quel momento, però, mi ero sentito soltanto Jay. Non più il chitarrista.
Né la voce più conturbante dell’ultimo decennio. Jay. Jay
l’innamorato. Un nuovo Jay che avevo scoperto a trent’anni. Tardi,
ma in tempo.
Avevo fatto di tutto per raggiungerla, ma non ce l’avevo fatta.
L’avevo vista dirigersi verso un taxi e avevo provato a correre più
veloce, riuscendo ad avvicinarmi all’auto giusto in tempo per vederla
un’ultima volta attraverso il finestrino. Avevo battuto la mano contro il
vetro urlando come un pazzo. Uno scambio di sguardi e poi più
niente. Mi ero bloccato ed ero rimasto a guardare impotente il taxi
che sfrecciava via con lei a bordo, con un unico pensiero che
continuava a tormentarmi la mente: “Ferma quel cazzo di taxi e torna
indietro. Torna da me”.
Dopo aver visto Frankie scomparire del tutto, mi resi conto
dell’enormità dei fatti di quella sera. Mi mancava il fiato per la corsa
improvvisa e la stanchezza post concerto, che si era fatta sentire fino
a una decina di minuti prima, sembrava essere scomparsa.
Deglutii a fatica e provai a ragionare. Dove poteva andare a
quell’ora, se non a casa sua? Non aveva altro posto in cui andare.
“Posso ancora raggiungerla”, riflettei.
Feci qualche passo indietro, al rallentatore, con lo sguardo ancora
ben piantato sulla strada. Non riuscivo neanche a rendermi conto di
dove mi trovassi, così avevo aperto e richiuso le palpebre più di una
volta, come per risvegliarmi da un brutto sogno. Un incubo, in questo
caso. Dal lato opposto della strada vidi le locandine gigantesche
dell’Ambassador Theatre, mentre alla mia sinistra notai l’insegna
gialla del ristorante italiano Da Marino: era surreale ciò che era
successo e ancora più surreale era starmene lì con gli occhi sbarrati
senza far niente. Dovevo tornare in me e connettere il cervello.
Appena riuscii a riprendere il controllo, tornai indietro correndo più
veloce che potevo fino a rientrare dalla porta sul retro del teatro.
Passai dal caos in strada al caos dietro le quinte, perché Al e
Danielle – la madre di Frankie – si stavano accusando a vicenda.
«Non ne avevi il diritto», gli stava urlando lei.
«Oh, davvero?», le rispose Al, facendo la voce grossa. «E chi lo
dice? Tu? La madre modello che le ha nascosto tutto? Tu sì che ne
avevi il diritto». Gli si formò un sorriso nervoso sul volto smunto.
«Davvero un gran bell’esempio le hai dato».
Sam e Bernie stavano assistendo alla scena sulla soglia del
camerino, mentre provavano a fare finta di niente, a deviare altrove
l’attenzione degli altri miei collaboratori e a lasciare ad Al e Danielle
un po’ di privacy. Quei due avevano bisogno di un mediatore o un
arbitro di pugilato, altro che privacy!
«Hai proprio una faccia tosta, sai?», replicò Danielle. I suoi occhi
intensi, di una strana tonalità di verde, erano furenti. Era molto
elegante con quel tailleur scuro, peccato che il suo bellissimo volto
fosse stravolto da un’espressione inferocita. Al me l’aveva sempre
descritta come una donna dolce, sensibile, eccentrica, con la testa
per aria, ma non certo aggressiva. Quando l’avevo vista la prima
volta a casa di Frankie mi era sembrata simpatica, anche se non mi
vedeva di buon occhio: non le ero andato a genio, evidentemente.
Ritrovarsi Jayden Maynard avvolto in un asciugamano nel soggiorno
di casa di sua figlia doveva averla scioccata non poco.
«Dani», Al cercò di farla ragionare, ma ottenne soltanto l’effetto
opposto.
«Non chiamarmi Dani», gli puntò l’indice contro, inclinando la testa
all’indietro per poter riuscire a guardare Al negli occhi, come Frankie
faceva con me. Un attimo. Frankie!
Attirai la loro attenzione con un «Ehi!», perché non si erano
neanche accorti del mio ritorno.
«Oh, eccolo il grande e sopravvalutato Jayden Maynard», non solo
l’avevo scioccata, ma mi ero anche attirato addosso il suo odio. Mi
fulminò e si affrettò a guardare oltre le mie spalle, in direzione della
porta, come se si aspettasse di veder rientrare Frankie da un
momento all’altro. «Sei stato tu l’artefice di tutto, non è così? Sei tu
che li hai fatti incontrare», sì ce l’aveva proprio con me, altroché.
«Come ti sei permesso? Hai usato la scusa della chitarra per farli
conoscere. Non ti vergogni neanche un po’?», si posò le mani sul
volto rosso per la rabbia. «Ti senti un dio? Non solo hai manovrato la
vita di mia figlia, te la sei anche portata a letto!».
«Che?», esplose Al. Si voltò anche lui nella mia direzione e mi
lanciò uno sguardo di rimprovero. Lui aveva nascosto una cosa a
Frankie. Io avevo nascosto una cosa a lui. Eravamo pari. «Ci sei
andato a letto? Jay, per l’amor del cielo». Si passò una mano sul
volto e si strofinò gli occhi, distrutto dalla stanchezza e dalla visione
traumatica di me e sua figlia nello stesso letto. Ops. Adesso anche lui
mi guardava con odio. Probabilmente sospettava che io e Frankie ci
fossimo avvicinati, ma non così tanto.
Alzai le spalle e feci un cenno come per dire «Non è il momento di
parlarne», ma era evidente che Al non fosse dello stesso avviso.
«Avevi detto che ti piaceva ma era un’amica. Solo un’amica», ribadì
con più convinzione.
«Non m’importa cosa ti ho detto», gridai fuori di me. «Lei se n’è
andata via», indicai la porta che dava sul retro e dalla quale Frankie
non era rientrata insieme a me. «Andata», gridai più forte.
«Che vuol dire “andata”?», Al si spazientì ancora di più.
«Che se n’è andata a bordo di un taxi», avevo il fiatone e il cuore a
mille. «Quindi, vi dispiace rimandare a dopo questa discussione?
Vorrei raggiungerla». Caricai di rabbia ogni singola parola.
Danielle si portò una mano alla bocca. «Che aspettiamo? Forza!
Prendo le chiavi della macchina», si affrettò ad aprire la sua borsetta
per poi tirarne fuori un mazzo di chiavi con un portachiavi lungo, di
quelli che puoi appendere al collo. Fece qualche passo avanti per
raggiungere il più in fretta possibile la porta che dava sul vicolo sul
retro del teatro; Al la seguì a ruota, ma lei si fermò e si voltò verso di
lui con l’intento di bloccarlo.
«Tu no», gli disse sbarrandogli la strada. «Se sta scappando è per
colpa tua».
«No, sono costretto a correggerti. Se sta scappando», fece una
fatica mostruosa a trattenere la rabbia, «è per colpa di tuo padre, ma
soprattutto tua, mia cara Dani. Ora lasciami passare oppure giuro che
ti prendo in brac…».
«La volete finire voi due?», urlai. «State solo perdendo tempo».
Sembravano due ragazzini che si stavano contendendo un giocattolo.
«Cristo!», mi sfogai su Al, dandogli una spinta di lato per toglierlo di
mezzo e andare all’inseguimento di Frankie.
«Jay!», mi chiamò la voce preoccupata di Bernie. «Dove stai
andando? Il party…», ma io ormai ero già uscito, con alle calcagna Al
e Danielle, che si era fermata solo un attimo per togliersi i tacchi.
Non me ne fregava un cazzo del party, delle interviste post
concerto, dei giornalisti, degli ospiti e nemmeno degli alti vertici della
casa discografica che volevano congratularsi con me. Non me ne
fregava un cazzo neanche di Bernie e della sfuriata che mi avrebbe
fatto per telefono o tramite messaggio in segreteria. Mi dispiaceva
per lei, ma Frankie era più importante di tutto il resto.
«A destra», mi urlò Danielle in preda all’agitazione. «Nel
parcheggio coperto». Che si trovava proprio nella stessa via in cui
avevo visto Frankie salire sul taxi e scomparire nel traffico.
Raggiungemmo l’auto di Danielle e insistetti per guidare; ero così
determinato che le strappai addirittura le chiavi di mano. Lei si limitò a
salire sul sedile posteriore e a sporgersi in avanti facendo capolino
tra me e Al, per continuare il discorso di poco prima. Non ebbi il
tempo di mettere in moto che già lei aveva ricominciato a blaterale di
quanto fossi irresponsabile, immaturo, meschino, insensibile,
calcolatore… cose che mi dicevano in continuazione, quindi non mi
sfioravano neanche più. Poi però mi definì anche in un altro modo:
«Bugiardo».
E allora scoppiai a ridere, con la rabbia che mi ribolliva nel sangue.
«Detto da te è un complimento». Uscii dal parcheggio e dopo qualche
metro rallentai fino a fermarmi; eravamo praticamente imbottigliati nel
traffico. In più mi ero dimenticato di spingere più indietro il sedile.
Risultato: avevo quasi le ginocchia in gola. Andai alla ricerca della
leva e allungai le gambe.
«Mia figlia deve essere impazzita per essersi invaghita di uno
come te», proseguì.
Doveva avere almeno vent’anni quella macchina. E aveva un gran
bisogno di essere revisionata perché andava a singhiozzo. Era un
miracolo che la madre di Frankie fosse arrivata a New York da
Nashville.
«Fantastico», sbattei i palmi delle mani sul volante di quel
macinino. «Ci mancava anche il traffico. Facevamo prima a piedi.
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