L’artista – Barbara A. Shapiro

SINTESI DEL LIBRO:
Era lì al mio arrivo, quel mattino, a destra della scrivania, uguale in
tutto e per tutto agli altri cinque o sei scatoloni sul pavimento, con i
lembi sollevati e i dipinti che spuntavano fuori qua e là . Non appena
lo vidi mi strappai via i guanti, caddi in ginocchio e passai in
rassegna il contenuto. Mi accorsi di avere smesso di respirare solo
quando iniziai ad avere male al torace e a vedere dei puntini neri
formicolare alla periferia del mio campo visivo.
Mi alzai, appesi il cappotto e la sciarpa, ricordai a me stessa che
avevo bisogno di tempo, di ricerche approfondite e di giudizi basati
sui fatti, non sui miei desideri. Ma li conoscevo bene, gli
espressionisti astratti. I loro primi quadri al pari delle ultime opere, le
più famose. Jackson Pollock prima della sgocciolatura, Mark Rothko
prima dei blocchi di colore, il periodo in cui Lee Krasner e Willem de
Kooning si cimentavano nell’arte figurativa. Ebbi l’impressione di
riconoscere qualcosa; sapevo, dentro di me, che non si trattava di
uno scatolone come gli altri, di un ritrovamento qualsiasi.
Conteneva più di una dozzina di dipinti non particolarmente
grandi, poco più di un metro di base quello di dimensioni maggiori.
Erano piccoli per essere opere di espressionisti astratti, anche se
fossero risaliti agli albori del movimento. Li appoggiai alle pareti,
sulla scrivania, e ne posai un paio su una pila di libri d’arte. Inspirai
l’odore stantio di polvere e pittura vecchia, mi chiesi dove fossero
stati per tutti quegli anni, chi li avesse toccati, amati, dimenticati.
Circolava voce che quello scatolone fosse il proverbiale forziere
del tesoro, pieno di opere d’arte di valore incalcolabile, ritrovato in
soffitta dai parenti di una persona defunta. Sono dicerie molto
comuni nel mio ambiente e spesso infondate, ma quella volta pareva
proprio che un fondo di verità ci fosse. All’inizio degli anni Quaranta il
WPA/FAP, la divisione dedicata all’arte della Works Progress
Administration, uno dei programmi del New Deal per la creazione di
posti di lavoro, fu soppresso senza preavviso: gli artisti furono
licenziati sbrigativamente, e tutte le loro creazioni andarono perdute.
Centinaia furono vendute a peso ai robivecchi, mentre il resto finì
sul marciapiede; qualcosa fu salvato da amanti e mercanti d’arte, la
maggior parte fu gettata via come immondizia. Ecco da dove era
nata, forse, la leggenda di quei quadri; c’era la speranza che
potessero essere le prime opere degli espressionisti astratti, molti
dei quali avevano lavorato per la WPA prima di diventare famosi.
Anche una casa d’aste come la nostra, una delle più affermate,
accetta regolarmente di sottoporre a perizia opere d’arte presentate
da non addetti ai lavori, in questo caso la famiglia Farrell di Blue Bell,
in Pennsylvania. La paura di lasciarci sfuggire il capolavoro del
secolo è quasi pari al timore di certificare come capolavoro quella
che si rivelerà poi una semplice crosta. In genere cerchiamo di
convincere la gente a mandarci, tanto per cominciare, delle
fotografie via mail, ma questa richiesta è spesso ignorata, e le opere
d’arte – quasi sempre prive di valore – sono allora affidate ai
catalogatori (io e la mia banda di quasi trentenni, con una laurea in
storia dell’arte conseguita in un’università prestigiosa e nessuna
competenza spendibile sul mercato del lavoro). Ci guadagniamo da
vivere, si fa per dire, studiando queste pecorelle smarrite e
inserendole nel database.
Quasi tutti i quadri che mi stavano di fronte erano privi di firma, il
che non stupiva, perché alla WPA interessava principalmente l’arte,
non l’artista. Non riconobbi gli autori sui pochi dipinti che erano
firmati, ma tra quelli senza nome... Era possibile? Quello poteva
essere uno dei paesaggi urbani geometrici di Rothko? Una natura
morta della Krasner? Un altro pareva uno dei primi disegni figurativi
di de Kooning. E due ricordavano da vicino il simbolismo estremo di
Pollock.
Il mio interesse per l’arte, e per l’espressionismo astratto, deriva
dai racconti di mio nonno sulla mia misteriosa prozia Alizée, anche
se iscrivendomi all’istituto d’arte mi ero immaginata in un atelier
d’artista, non nel cubicolo di un ufficio. Secondo la leggenda di
famiglia, Alizée aveva lavorato per la WPA e frequentato, a New York,
tutti gli artisti del suo tempo. Grand-père sosteneva che erano suoi
amici, e perfino amanti, e che lei ebbe un’influenza profonda sul loro
operato. Secondo mia madre, invece, si tratta di semplici congetture
senza fondamento. La prozia Alizée era scomparsa in circostanze
misteriose nel 1940, quindi non poteva rivelare la verità .
Richiamai alla memoria i suoi due quadri, gli unici esistenti, da
quel che si sapeva: i colori, le pennellate, l’energia dirompente.
Grand-mère li aveva dati a me perché ero io l’artista di famiglia, e
occupavano tutto il muro del mio piccolo monolocale, facendo
sembrare minuscoli i mobili. Uno era un dipinto astratto seducente e
leggermente inquietante, una celebrazione quasi metamorfica di
foglie di ninfea o nubi o pesci, che chiamavo Foglie di ninfea perché
suonava meglio di Nubi o Pesci. L’altro, Ritorno, attirava l’attenzione
con prepotenza, era qualcosa di completamente diverso, né astratto
né realistico, un colpo al plesso solare.
Purtroppo, a differenza della reazione istintiva che avevo provato
per Pollock, Rothko e Krasner, non vidi nulla in quei quadri che
assomigliasse all’opera di mia prozia. Nel corso della sua esistenza,
il WPA/FAP aveva dato impiego a centinaia, se non migliaia, di artisti,
che avevano creato centinaia di migliaia di dipinti e sculture, e la
possibilità che qualcuno di quelli fosse opera di mia prozia era
scarsa. Così come era difficile che lo scatolone contenesse proprio
quadri della WPA. Però...
«Ehi!» Il mio amico Nguyen interruppe i miei pensieri. Il suo nome
era Tony, ma nessuno lo chiamava mai così. «Mi fai vedere cos’hai
trovato? Mi pare il minimo, visto che te l’ho rimediato io». Associate
specialist da Christie’s, pareva destinato a trascorrervi l’intera vita
lavorativa. Era a due o tre scatti di stipendio sopra di me, e aveva
sempre desiderato lavorare per una casa d’aste. Giocava la carta
del servilismo con una consapevolezza intrisa di sarcasmo che
divertiva entrambi. Io, invece, lavoravo lì solo per via dei benefit
(scarsi) e dell’assegno bimestrale (irrisorio).
Uscii in corridoio per lasciargli spazio nel mio cubicolo. Dopotutto
era lui che mi aveva avvertito delle potenzialità di quello scatolone e
che si era premurato di farlo arrivare fino a me.
Indicò il presunto Rothko. «La serie di dipinti su New York?
Trasmette lo stesso sentimento di alienazione».
«Come tante altre opere dello stesso periodo» obiettai, tanto per
fare l’avvocato del diavolo.
«Vero». Passò in rassegna il resto. «C’è qualcosa che potrebbe
essere opera di tua prozia?» Pranzavamo insieme almeno una volta
alla settimana, e c’erano ben pochi segreti tra noi.
Scossi il capo. «Mia madre dice che non ce ne sono più».
«Come fa a saperlo?»
«È quello che le ho detto».
«Se tua prozia è scomparsa, perché non sarebbe potuto accadere
lo stesso ai suoi quadri?»
«Si pensava che fosse troppo folle per continuare a dipingere.
Ricordi? La faccenda dell’ospedale psichiatrico».
Liquidò il mio commento con un gesto della mano. «Sembri tua
madre».
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