L’arte del fallimento – Andrea Fazioli

SINTESI DEL LIBRO:
Verso le due, Johnny Fontana uscì dal locale. La musica divenne un
mormorio, come un ruscello ai bordi della strada. Johnny avanzò nel
parcheggio finché raggiunse un angolo buio. Nel cielo, fra le nuvole,
brillavano un paio di stelle. Johnny si domandò perché d'autunno le
stelle sembrino più piccole, più lontane.
Si accese una sigaretta. Passò un'automobile, poi per un attimo
cessarono tutti i rumori. Johnny provò la sensazione di essere solo
al mondo: l'ultimo sopravvissuto. C'erano soltanto lui e quelle due
stelle minuscole come punte di spillo.
Johnny Fontana suonava il sax con i Blue Diamonds. Il gruppo
aveva un nome improbabile ‒ ma a pensarci era tutto improbabile.
Non che lui si lamentasse. Anzi, gli piacevano i viaggi, l'atmosfera
dei locali e le dita che correvano da sole sui tasti, perché il repertorio
ormai gli era entrato nel sangue. Del resto, anche «Johnny Fontana»
era un nome improbabile.
Che cosa accadde, in quel momento? Che cosa suscitò il primo
sospetto? Magari lo sbattere di una portiera, o l'eco di un passo
sull'asfalto. Di certo Johnny non vide nulla. Però ebbe la sensazione
di non essere solo. La sigaretta che si consumava, il riflesso di
abbottonarsi la camicia, la ricerca di un cestino dei rifiuti... C'era
qualcuno, da qualche parte là fuori, che non si perdeva un gesto.
Paranoia? Johnny rinunciò a un'altra sigaretta e tornò dentro.
Poteva anche darsi che negli ultimi giorni avesse dormito poco.
Conrad e Lello, al basso e alla batteria, stavano trascinando una
ballad. Max toccava appena i tasti del piano. Fra un accordo e l'altro
la tromba di Pin trovava ampi spazi in cui adagiarsi dolcemente,
troppo dolcemente, come un Chet Baker che si fosse appena
svegliato. My Funny Valentine. Con quel tempo la canzone sarebbe
durata almeno altri cinque minuti. Tanto più che l'assolo di Pin non
accennava a terminare, anzi, stava ripartendo per un altro giro.
Johnny prese il sax, inumidì l'ancia ed emise qualche nota, piano
piano, tanto per segnalare a Pin che non era più solo a vagare nel
deserto.
Era un locale come un tempo ce n'erano tanti, perduto tra le
pompe di carburante e i magazzini. In quella terra di nessuno, poco
distante dallo svincolo autostradale, si radunavano gli irriducibili della
musica dal vivo. Dietro il banco facevano bella mostra bottiglie di
whiskey irlandese: Jameson, Bushmills, Connemara.
Johnny lasciò spazio all'assolo di Max. Sotto il palco
s'intravedevano uomini e donne di mezza età , qualche giovane che
non si perdeva una nota, camicie spiegazzate, occhiali dalla
montatura pesante. Johnny passava da un volto all'altro, cercando di
placare il senso di allarme.
Cherokee. Così, senza preavviso. Troppo veloce. Johnny fece
segno a Lello e Conrad di rallentare, poi partì con il tema. Note
lunghe: mi sol la e poi una discesa dal do centrale al la, per evocare
la melodia degli anni Trenta. Una canzone che, nella mente di
Johnny, aveva un colore rosso mattone. Dopo sedici battute il tempo
accelerava: rosso acceso. Johnny si trovò stretto in un'armatura di
accordi, e non poté più distrarsi. Perciò non vide l'uomo arrivare e
sedersi in prima fila, da solo, con un whiskey.
Ma a un certo punto, nonostante l'impeto dell'assolo, Johnny trovò
lo sguardo dell'uomo. Non dovette nemmeno cercarlo: gli occhi lo
stavano aspettando, appostati nella penombra. Era lì per lui, Johnny
ne era sicuro. Nonostante l'aria viziata, sentì gelarsi il sudore sulla
schiena. Non poteva permettere che lo scoprissero: erano passate
poche settimane, ma era riuscito a eliminare ogni traccia della sua
vecchia vita.
E ora, nel mezzo di un concerto, ecco quello sguardo.
3. L'ultimo assolo
Incalzati dal ritmo di Cherokee, i pensieri di Johnny divamparono in
mille direzioni. Che fare? Affrontare l'uomo? No, assurdo... Forse
poteva fuggire dal retro.
Il rullante gli segnalò che doveva ripetere il tema.
Appena finita Cherokee, avrebbe voluto scendere dal palco. Max
però non gli lasciò il tempo di respirare e chiamò Ev'ry time we say
goodbye, attaccando subito con le note ribattute del ritornello.
Johnny cercò di concentrarsi, di suonare pensando alle parole, come
gli aveva insegnato il suo maestro. Ev'ry time we say goodbye, I die
a little, ev'ry time we say goodbye, I wonder why a little. Come
avevano fatto a ritrovarlo? L'uomo se ne stava immobile, con il
whiskey fra le mani. Doveva scappare, doveva farlo subito. Ev'ry
single time we say goodbye...
Durante l'assolo di Pin, Johnny posò il sax sul treppiede e si
allontanò. Se fosse riuscito a sgattaiolare dalla finestra del bagno...
Cercava di stare calmo, di controllare il respiro. Ricordava le parole
del suo maestro: sembra difficile, ma si tratta solo di suonare tutte le
note, una alla volta.
Una nota alla volta...
Sganciò l'uncino che teneva socchiusa la finestra e la tirò verso di
sé.
«Signor Balmelli».
Johnny Fontana s'irrigidì.
«Signor Balmelli, posso offrirle un whiskey?»
Johnny si voltò. L'uomo gli sorrideva, tendendogli la mano. Aveva
una faccia spigolosa e due occhi chiari, ingenui.
«Chi è lei?» gli domandò.
«Mi chiamo Contini».
Johnny gli strinse la mano, quasi per un riflesso automatico. Poi la
ritrasse di colpo e chiese: «Che cosa vuole da me?»
«Io non voglio niente» rispose l'uomo. «A volere qualcosa sono
suo fratello, i suoi famigliari, i suoi dipendenti e, se devo essere
sincero, perfino la sua ex fidanzata, con la quale ho parlato... in
totale discrezione, s'intende, e che mi ha detto...»
«Sì, ho capito» tagliò corto Johnny.
Per un attimo pensò di gridare, di resistere. Ma poi si rese conto di
trovarsi nel cesso di un locale notturno, a quarant'anni, lontano
chilometri da casa, insieme a... a un...
«Lei è un investigatore?»
Contini annuì. «Sono arrivato qui dalla Svizzera. Proprio come
lei».
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