L’arrivo di una strana primavera – Franco Faggiani

SINTESI DEL LIBRO:
La notai subito, la mattina, appena gettato lo sguardo sulla sottile
linea di confine tra il prato e il bosco, proprio davanti alla finestra
dello studio. Del resto, non vederla sarebbe stato impossibile: era
una tenda da campeggio a forma di panettone, rossa fiammante.
Non riuscii a capire come mai fosse lì, considerando che all’inizio
della primavera le condizioni del clima e dei terreni non offrono
nessuna garanzia di sicurezza per poter fare escursioni. La neve
granulosa si stava sciogliendo rapidamente, trasformando i prati e i
sentieri in torrentelli d’acqua fangosa; nei due giorni precedenti
aveva fatto caldo ed era piovuto abbondantemente, come fosse già
iniziata l’estate. Poi, stando alle nuvole panciute ancorate alle dorsali
delle montagne intorno, sembrava certo che la pioggia sarebbe
caduta di nuovo.
Comunque lasciai perdere la tenda rossa; probabilmente era solo
qualcuno di passaggio. Ogni tanto, però, alzai lo sguardo verso di
essa ma, dentro o intorno, non vidi mai anima viva.
In quei giorni avevo molto lavoro da sbrigare. Appena sveglio
davo un’occhiata a un paio di notiziari, che erano perlopiù resoconti
giornalieri della dilagante guerra contro il virus in corso da qualche
settimana. Li ascoltavo più con curiosità che con apprensione. Poi
mi mettevo davanti alla tastiera e cominciavo a scrivere; volevo finire
in tempi brevi un piccolo libro che avevo in testa da oltre un anno e
che, come voleva il mio ruolo di autore-editore fai da te, mi sarei
autopubblicato e avrei venduto: Gli antichi mestieri della montagna.
Avevo girato per le borgate alpine per buona parte dell’autunno fin
quando non aveva iniziato a nevicare. Così avevo potuto rintracciare
una cinquantina di personaggi che continuavano a fare lavori d’altri
tempi: calderai, spazzacamini, guardiani di dighe, costruttori di basti,
mulattieri, artigiani, scalpellini, guardaboschi e via di seguito.
All’inizio dell’anno mi ero messo d’impegno, avevo cominciato a
scrivere le loro storie e tutto procedeva al meglio, senza ostacoli,
anche nel momento in cui aveva cominciato a diffondersi la notizia
che l’epidemia si stava trasformando in pandemia, pronta a dilagare
in ogni direzione, in tutto il mondo. Ma qui non era “tutto il mondo”;
era il nostro mondo, di boschi, di vento, di quiete, di rapporti con gli
altri sempre essenziali e contenuti. Avevo pure ridacchiato tra me e
me nel leggere che la vera medicina era starsene isolati dagli altri.
Quassù allora eravamo in una botte di ferro! Erano settimane che
non vedevo nei dintorni anima viva. Oltretutto la spesa minima
passava a farla Martino, quando finiva il lavoro nella stalla annessa
all’agriturismo Barba Gust, e le piccole incombenze burocratiche le
gestivo online.
La nostra dispensa, per abitudine, era rifornita come quella di una
portaerei, e per le emergenze bastava scendere per i prati,
attraversare il bosco per raggiungere la casa di Daniele Bermond, ai
margini del vecchio borgo. Dunque, avremmo potuto starcene in
isolamento – questa era la parola più usata del momento – anche
per un paio d’anni, senza soffrirne troppo. Anzi. Anche perché
l’isolamento, non la solitudine, che è una cosa più complicata, per
noi era stato il risultato di una consapevole scelta, e per questo
potevamo apprezzarne i privilegi.
Naturalmente non vivevamo dentro un’ampolla di vetro, dalla
quale poter solo guardare fuori. Era inevitabile, dunque, che qualche
piccolo o improvviso cambiamento ci sarebbe stato anche nelle
nostre vite defilate.
Martino, per esempio, era stato costretto a lasciare le aule
dell’università e a seguire le lezioni da casa, e questo un po’ lo
immusoniva, anche se nel pomeriggio l’umore migliorava perché
poteva andare ad accudire gli animali. Al mattino ascoltava i
professori davanti al computer e ogni tanto lo sentivo confabulare,
oltre la porta della sua grande stanza. Era lui che spiegava a chi
stava dall’altra parte dello schermo come migliorare gli aspetti
tecnologici delle lezioni a distanza.
Prima della chiusura delle aule aveva fatto in tempo a superare
brillantemente tre esami a distanza ravvicinata e in due piani di
studio diversi. Qualche mese fa era partito per Torino con l’intento di
iscriversi al Politecnico per studiare Design e, dopo due giorni, era
tornato con l’iscrizione non a una ma a due facoltà differenti: Biologia
e Scienze forestali. La cosa era stata oggetto di discussioni che, a
tratti, ancora si trascinavano.
«Complimenti per la coerenza e per le idee chiare, e soprattutto
grazie per avermi avvisato», gli avevo detto la prima volta.
«Volevi essere avvisato perché sei tu che paghi? Se è per
questo, sarai rimborsato», aveva replicato con un sorrisetto
sarcastico, girando la testa dall’altra parte.
«Sei proprio un fesso. Avrei voluto essere avvisato perché è
come se fossi tuo padre, non un amico che ti ospita. E perché
viviamo insieme da una dozzina d’anni e condividiamo cose belle e
cose brutte, oltre che un posto invidiabile, il cibo, un tetto e una
macchina».
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