L’amoroso pensiero – Marco Santagata

SINTESI DEL LIBRO:
Le avvertenze che nel primo sonetto Petrarca impartisce ai lettori sono
chiare e per no perentorie. Quella che essi leggeranno è una storia d’amore
da lui vissuta in età giovanile e adesso conclusa. Il libro la racconterà così
come essa si è svolta, con la stessa partecipazione emotiva di allora, ma
anche con lo sguardo distaccato di chi ne è uscito, la osserva da una
raggiunta condizione di saggezza e la giudica. Giudizio negativo,
ovviamente: passione e desiderio travolgono chi ne è preda, gli tolgono la
lucidità razionale, lo rendono schiavo di un oggetto di desiderio che, per di
più, è imprendibile. Frustrazione e alienazione sono i frutti amari e dolorosi
dell’amore. Il libro racconterà quanto sia stata lunga, penosa e piena di
ricadute la strada che ha portato alla liberazione. E come, alla ne,
quell’uomo che per tanti anni ha amato una creatura mortale, pentitosi di
avere dilapidato gran parte della sua vita, sia approdato all’unico vero amore
e abbia convertito la ricerca di un vano e labile piacere sulla terra nella
speranza della felicità eterna.
Petrarca, però, non aveva considerato una circostanza importante: le
prefazioni – e il primo sonetto è una sorta di prefazione – si scrivono a libro
ultimato, mentre, quando lui nel 1349 o 1350 al massimo compone il suo
avviso ai lettori, la raccolta era ancora tutta da montare. Il primo sonetto ne
ipotecava preventivamente il nale, che avrebbe dovuto esibire una sorta di
«come volevasi dimostrare», ma vedremo che un libro composto di poesie in
gran parte scritte nel passato, prima ancora che esistesse il progetto a cui
adesso dovevano adeguarsi, opporrà una tenace resistenza a obbedire a
quell’ingiunzione impartitagli n dai primi versi.
Perché? Quando?
Petrarca ha ben chiare anche quali saranno le modalità con le quali il
libro che si appresta a comporre dimostrerà la sua tesi. Lo farà con una
operazione letteraria innovativa, costruendo un racconto, una sorta di
romanzo, tramite l’assemblaggio di componimenti lirici ciascuno dei quali è
in sé autonomo e autosufficiente. Una storia esile ma progressiva farà da
supporto a un più limpido e coerente itinerario etico e spirituale. Il libro
mostrerà come dagli eventi succedutisi negli anni, gradualmente, sia
cresciuta la consapevolezza del soggetto innamorato, no al rigetto e alla
condanna morale di quel legame che lo aveva incatenato. Il progetto gli
appare così solido che, attingendo ai precetti della retorica su come vada
introdotto un libro unitario di impianto narrativo, non si perita di edi care
un robusto piedistallo proemiale sul quale innalzare il libro delle rime. È
un’altra impegnativa avvertenza ai lettori: attenti, questa non è una raccolta
di poesie come le altre, questo è un racconto fatto di poesie.
A quello proemiale seguono quattro sonetti che, pur legati al tema
amoroso, appaiono a prima vista scollegati tra loro.
Nel primo Francesco racconta che, come un armato in attesa dell’assalto
nemico, la sua virtù era preparata a contrastare l’attacco che Amore gli
avrebbe portato per vendicarsi di essere stato no ad allora respinto, ma che
l’assalto fu così improvviso e violento che la virtù non fece in tempo ad
armarsi e nemmeno a guidare la ritirata del soggetto in un luogo sicuro, la
rocca della razionalità che nell’uomo è situata in alto, nel capo:
Però, turbata nel primiero assalto,
non ebbe tanto né vigor né spazio
che potesse al bisogno prender l’arme,
overo al poggio faticoso ed alto
ritrarmi accortamente da lo strazio
del quale oggi vorrebbe, e non pò, aitarme. a
Il secondo sonetto spiega, mettendo in atto per la prima volta
l’accoppiamento a contrasto dei componimenti tipico del modo di procedere
di questo libro, che al momento dell’assalto Francesco era disarmato e che
quindi Amore non vinse in modo onorevole, tanto più che si guardò bene
non solo di ferire, ma per no di minacciare Laura. Francesco, dunque, si
innamora di una donna che non lo ama.
Ma perché era disarmato? Perché, spiega,
Era il giorno ch’al sol si scoloraro
per la pietà del suo Fattore i rai,
quando i’ fui preso, e non me ne guardai,
ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.
Era il giorno anniversario della morte di Cristo, era un venerdì santo, e
perciò
Tempo non mi parea da far riparo
contra’ colpi d’Amor: però m’andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai
nel commune dolor s’incominciaro. b
Mai avrebbe immaginato che in quel giorno di lutto per tutta la cristianità
un sentimento così profano potesse penetrare, grazie alla visione dei begli
occhi di una donna, n dentro al suo cuore.
Attenzione, qui e in tutto il primo Canzoniere Petrarca non rivela la data
del primo incontro (6 aprile 1327), data che avrà un ruolo importantissimo
nel Canzoniere de nitivo; solo una volta accenna di sfuggita al fatto di
essersi innamorato in aprile.11 Gli interessa unicamente che nella memoria
dei lettori si ssi la corrispondenza tra l’inizio dell’amore e il giorno liturgico
della Passione. Così sarebbe apparso chiaro che il suo sentimento era nato
sotto il segno del peccato, di più, intriso di peccato, e proprio nel senso
agostiniano: distratto dalla bellezza della creatura lui aveva tradito il
Creatore, e ciò nel giorno in cui avrebbe dovuto essere più vicino, più
partecipe alla drammatica vicenda del Dio incarnato che si sacri ca per
donargli la salvezza.
Il sonetto, dunque, porta in primo piano ciò che l’impostazione etico
razionale del proemio lasciava solamente intravedere sullo sfondo. Ne
consegue, però, che il pentimento a cui il libro dovrà pervenire sarà l’esito di
due cammini distinti: una cosa è liberarsi dallo stato di alienazione e
recuperare razionalità e autocontrollo, altra cosa è giudicare il sentimento
amoroso una grave colpa morale e condannarla. Le due prospettive
investono il giudizio sulla gura di Laura: nel primo caso, non coinvolta nel
processo di liberazione del soggetto, nel secondo, oggetto lei stessa di
condanna in quanto causa e agente di perdizione.
Laura
Mentre i primi due sonetti parlano dell’innamorato e della dinamica del
suo innamoramento, i secondi due danno alcune informazioni sulla donna
che lo fece innamorare.
Ma chi era questa donna? Che cosa sappiamo di lei?
Sappiamo che si chiamava Laura e che morì di peste ad Avignone il 6
aprile 1348. Era stata, e nell’anno della morte era ancora, la protagonista
unica o pretesa tale della produzione lirica in volgare di Petrarca, a
cominciare dal 1327. Il 6 aprile di quell’anno, verso le sei del mattino, il
ventitreenne Petrarca l’aveva vista per la prima volta nella chiesa avignonese
di Santa Chiara. Lo racconta lui stesso a più riprese. Non c’è motivo di
mettere in dubbio, se non l’esattezza cronologica (giorno e ora), la veridicità
dell’incontro in chiesa: in un’epoca nella quale molte restrizioni limitavano
l’apparire in pubblico delle donne, anche sposate, la frequentazione delle
funzioni religiose offriva una delle rare occasioni di incontro tra i due sessi.
A maggior ragione, e nonostante il parere contrario di alcuni contemporanei
e di molti lettori moderni, neppure la reale esistenza di Laura può essere
messa in discussione. Intanto, il grande pittore Simone Martini, su richiesta
di Petrarca, la «ritrasse in carte»,12 cioè in una miniatura, e poi nel Secretum
è descritta con tratti di un realismo a dir poco impietoso: «ogni giorno
s’avvicina sempre di più alla morte, e quello splendido corpo, stremato dalle
malattie e dai frequenti parti, ha perso molto della salute di un tempo».13
Questa donna stremata dalle troppe gravidanze era dunque sposata. Come
tutte, o quasi, le dame cantate dai poeti medievali. Sia nella società feudale
sia in quella comunale le giovani, «promesse» in matrimonio già in tenera
età, non avevano una vita di relazioni; solo le donne sposate frequentavano,
pur con molte cautele, la società. Praticamente non c’erano donne libere alle
quali poter rivolgere un corteggiamento, anche solo letterario.
Si ipotizza che la dama celebrata da Petrarca fosse una gentildonna della
casata dei Noves di nome Laure, sposata con un membro della nobile e
autorevole famiglia dei Sade (quella che sarà del Divin Marchese); alcuni
biogra antichi, invece, pensavano che essa fosse una Sade di nascita, non
per acquisizione. Di certo Laura era nobile; che il nome attribuitole da
Petrarca non fosse ttizio è più che probabile. Del resto, già cinquant’anni
prima i lirici d’amore dello Stil Novo avevano abbandonato l’usanza di
origine «cortese» di celare i veri nomi delle destinatarie delle loro poesie
dietro a pseudonimi: il nome Beatrice, per esempio, non era che la
nobilitazione del più prosaico Bice, la glia di Folco Portinari.
Non sapremo mai quali siano stati i veri rapporti sentimentali tra
Petrarca e Laura, fosse della casata dei Noves o dei Sade. Se ci atteniamo agli
scritti, la sua fu passione vera. E però amici a lui vicini, quali Giovanni
Boccaccio e, testimone dei fatti, il vescovo Giacomo Colonna, ne
dubitavano; anzi, sostenevano che quell’amore fosse inventato e che oggetto
del suo desiderio non fosse una donna in carne e ossa ma la gloria poetica
simboleggiata dalla «laurea». Comunque, al momento della morte di Laura
la passione, se mai ci fu, si era alquanto raffreddata: «una morte acerba, ma
provvida» scrive in una epistola concepita per i posteri «aveva spento una
amma ormai languente».14 E forse, dopo tanti anni, anche il mito poetico
di Laura aveva dato tutto ciò che poteva dare. La sua morte, pertanto,
potrebbe essere stata «provvida» non solo per la salvezza dell’anima di
Petrarca, ma anche perché veniva a ridare vigore al mito, apriva nuove
strade all’immaginario poetico. In ogni caso, aveva un forte valore simbolico
perché segnalava che una lunga stagione della poesia del suo cantore si era
chiusa.
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