L’ambaradan delle quisquiglie – Francesco M. Cataluccio

SINTESI DEL LIBRO:
Il
mondo è da sempre avvolto in un velo di
confusione. Per questo bisognerebbe tentare di raccontare uno
come Jiří, che era alto e goffo, aveva una barbetta spelacchiata,
scriveva brevi poesie, viveva facendo foto, ritoccate, dei matrimoni.
E suonava in continuazione al sassofono l’ossessivo Olé di John
Coltrane. Era scappato in bicicletta da Praga, nell’agosto del 1968, e
si era rifugiato a Roma, da un cugino prete. Abitava in un minuscolo
e disordinato appartamento in via Amba Aradam, quasi di fronte
all’ospedale di San Giovanni, prima dell’incrocio con la via Merulana.
Lo divideva con Guesh, una ragazza etiope dalle mille treccine,
anche lei fuggiasca, studentessa d’arte. Jiří si autodefiniva
scherzosamente «servitore del re d’Inghilterra», come il buffo
protagonista dell’omonimo romanzo1 di Bohumil Hrabal che si
vantava, tra l’altro, di aver fatto il cameriere durante il lussuoso
banchetto dell’imperatore d’Abissinia Hailé Selassié, all’Hotel Parigi
di Praga (⇨ SALSICCE).
A casa loro vidi per la prima volta una riproduzione del Codice,
Eritrea libera: un lavoro postale di Alighiero Boetti, del 1975, fatto di
tante buste affrancate con file di francobolli etiopi tutti uguali, con il
ritratto di Hailé Selassié, qualche volta posizionato a testa in giù:
«Ad Addis Abeba, in un’Etiopia senza Negus, si vive senza alcuna
fede, morale, rigore. Metà della cittadinanza vuole pulirti le scarpe,
anche da tennis; l’altra metà, femminile, si offre. Come inviare
un’informazione segreta attraverso i canali postali? Ecco il codice
che considera la sequenza alfabetica e il continuo “andare a capo”. I
francobolli rovesciati (ricordando la carta numero 12 dei tarocchi,
l’Appeso) indicano le lettere successive del messaggio il quale, una
volta decifrato, dice la cosa più proibita in quel luogo: Eritrea
libera».2
Dalla finestra della variopinta camera di Jiří e Guesh si
intravedeva, in linea con la punta dell’Obelisco Lateranense, il
cartello stradale con la scritta Ambaradan: un nome da marcetta
militare che mi mandava in confusione, per quel che evocava.
In Etiopia, a sud di Macallè e 700 chilometri a nord di Addis
Abeba, nella zona del Debra Behan, c’è un massiccio montuoso
chiamato Amba Aradam, (da «amba», rilievo montuoso) dove, dal 10
al 19 febbraio del 1936, le truppe degli invasori italiani, comandate
dal maresciallo Pietro Badoglio, combatterono una cruenta battaglia
contro gli etiopi guidati dal ras Mulugeta Yeggazu.
L’aviazione italiana, che aveva il dominio incontrastato del cielo,
utilizzò su larga scala il gas iprite, irrorandolo a bassa quota, con la
precisa finalità di terrorizzare sia i soldati che la popolazione civile e
piegarne ogni resistenza, mentre le truppe italiane a terra lanciavano
con l’artiglieria proiettili al fosgene e arsina. Ma il soldato-giornalista
Indro Montanelli, non vide e non volle vedere nulla, e negò per tutta
la vita quei crimini italiani.3 Eppure, già a partire dal 22 dicembre
1935 l’esercito italiano usava le armi chimiche, contravvenendo al
Protocollo di Ginevra del 17 giugno 1925 (sottoscritto anche
dall’Italia). Nel luglio del 1936 il deposto imperatore Hailé Selassié
aveva denunciato, all’assemblea della Società delle Nazioni, che:
«Mai, sinora, vi era stato l’esempio di un governo che procedesse
allo sterminio di un popolo usando mezzi barbari, violando le più
solenni promesse fatte a tutti i popoli della Terra, che non si debba
usare contro esseri umani la terribile arma dei gas venefici».
Durante la battaglia di Amba Aradam le truppe italiane erano
alleate con alcune tribù locali ma, a seconda delle trattative in corso,
alcune di queste si schieravano a loro volta con il nemico, per poi
riaffiancare i soldati italiani.
Al loro ritorno in patria, i soldati «italiani brava gente», di fronte a
una situazione disordinata e caotica, cominciarono a definirla «come
ad Amba Aradam»: «è un’Amba Aradam». Nell’uso, le due parole si
sono fuse in una sola, col cambio della lettera finale,4 diventando
Ambaradan.
Tre anni dopo, tra il 9 e l’11 aprile 1939, una carovana di partigiani
guidati da Abebé Aregai, leader del Movimento di Liberazione
Etiope, fu individuata dall’aviazione italiana e si rifugiò nella grotta di
Amezegna Washa (Antro dei Ribelli) del monte Amba Aradam. La
carovana era composta da membri della resistenza, ma anche dai
loro parenti, che garantivano la cura dei feriti, oltre che da donne,
vecchi e bambini. Il plotone chimico della divisione Granatieri di
Savoia attaccò i partigiani di Aregai, usando bombe a gas d’arsina e
iprite. Solo quindici persone riuscirono a scappare dalla grotta. Morì
la maggior parte di coloro che vi si erano rifugiati. Ottocento persone
arresesi all’alba dell’11 aprile vennero subito fucilate. Coloro che
all’interno della grotta continuarono la resistenza furono uccisi con i
lanciafiamme. Le estese ramificazioni della grotta resero però molto
difficile esplorarla per stanare i membri della resistenza che ancora
vi si rifugiavano. Il comando militare italiano diede quindi l’ordine di
ostruirne l’imboccatura.
In quella grotta di una montagna ormai dimenticata è sepolta la
nostra buona e confusa coscienza nazionale, ricordata oltre che a
Roma, anche a Genova, Lainate e Mestre, dove ancora esistono
strade che si chiamano via Amba Aradam.
AMORE Vedi alla voce LÍTOST.
ANNI
Ci sono stati degli anni meravigliosi, perché assai
tragicomici. Reiner Kunze è un poeta e scrittore tedesco, sposato
con una dottoressa boema (Elisabeth Littnerovà), che, nel 1968,
ebbe il coraggio di restituire la tessera del partito comunista per
protesta contro l’invasione della Cecoslovacchia. Nel 1976 pubblicò
in Occidente un piccolo e acuto libretto, intitolato appunto Gli anni
meravigliosi,5 che gli costò, l’anno seguente, l’espulsione dalla
Repubblica Democratica Tedesca. Il volume contiene un racconto
perfetto, Il mio amico, un poeta dell’amore,6 che ricorda le storie
narrate da Milan Kundera, con un protagonista che incarna bene
quel misto di amara ironia e vigliaccheria che caratterizzava lo spirito
dei boemi sotto il socialismo ed era la loro forza (l’ironia aiutava a
sopportare l’assurdità della dittatura), ma anche la loro debolezza
(tutto veniva preso per grottesco e poco meritevole di ribellione):
È uno dei più coraggiosi tra March e Moldava, un frantumatore di
tabù, un ironico disgregatore di dogmi: aveva sottoscritto la
primavera del ’68.
«Verso le tre di mattina una donna si ferma dietro l’uscio e grida il
mio nome, e proprio quella notte Alena è da me» disse. Alena è la
moglie. Non abitavano a Praga. Ci lavorava soltanto e aveva una
camera. «Sai quanto Alena è gelosa» disse. «Per fortuna ha il sonno
di un bambino. – Quella fuori aspetta, e io rifletto su chi possa
essere: Jana? Evicka?… Dása? Dása l’avevo conosciuta solo
qualche giorno prima. Una ragazza splendida! Ma quando con una
ragazza sei andato a letto una volta sola, non basta per riconoscerla
subito dalla voce. Quella chiama ancora, bussa. A questo punto si
agita anche Alena. Le poso una mano sulla bocca e dico che non si
deve muovere, probabilmente è qualcuno al quale hanno chiuso il
bar e che vuole continuare a bere. Poi sento che va via, esce... Alle
sei e mezzo bussano di nuovo. La stessa voce. – Vado ad aprire
dice Alena. – Così non puoi, dico, e cerco di dissuaderla. – sono
curiosa, dice lei, e prende la vestaglia. Quando vedo che la
catastrofe non è più evitabile, mi trasferisco in bagno. Alena rientra,
pallida. Praga è occupata, dice, in piazza Venceslao ci sono carri
armati sovietici. – Beh, sapessi cosa successe dentro di me in quel
momento: com’ero contento che fossero soltanto i carri armati».
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