L’altra metà del mondo – Gabrielle Zevin

SINTESI DEL LIBRO:
Quando ho conosciuto Margaret, vivevo in un seminterrato. L’affitto era
ragionevole e, del resto, per quel prezzo non mi sarei potuto permettere niente
di meglio. La vista, da lì sotto, era interessante, se non addirittura ideale:
scarpe, parte di un polpaccio, cagnolini, le gambette dei bimbi ai primi passi.
Presto ho imparato a riconoscere i miei visitatori dalle calzature che
indossavano. All’epoca, le uniche due persone che venivano a trovarmi
regolarmente erano mia sorella Bess, coi suoi orrendi sandali in finta pelle
scamosciata, e Margaret, che cambiava scarpe a seconda dell’umore. Quel
periodo era piuttosto strano. Già: conducevo una vita da seminterrato. Il
giorno e la notte non sembravano più così diversi. Insetti e parassiti vari, che
evitavano accuratamente gli alloggi rispettabili al di sopra della superficie
terrestre, erano invece miei ospiti fissi. Quando la neve si scioglieva,
l’appartamento si allagava. Il giorno della raccolta dell’immondizia dovevo
tenere le finestre chiuse. Le stanze non si scaldavano mai e la temperatura si
manteneva intorno agli otto gradi durante tutto l’anno. Persino gli inquilini
dei piani superiori sembravano avvicinarmi con sospetto; in qualche modo, il
fatto di vivere là sotto mi aveva appiccicato addosso un’etichetta: ero
diventato il ragazzo del seminterrato.
Gli unici mobili che arredavano l’alloggio, li avevo rubati all’università
dove stavo prendendo la specializzazione. Al posto di un letto vero avevo due
materassi singoli. Quando dormivo solo li sovrapponevo. Quando avevo
un’ospite, invece, li sistemavo l’uno accanto all’altro. Da un anno, la mia
ospite era una certa Margaret Mary Towne. Maggie, all’epoca.
Per quanti sforzi facessi, i due materassi finivano sempre per separarsi.
Durante la notte si allontanavano misteriosamente, e io e Maggie andavamo
alla deriva come naufraghi di un programma televisivo degli anni ’50. Una
volta, lei si trascinò fino al mio letto. Mi disse che aveva freddo. Non se ne
andò più.
La notte successiva alla sua laurea (Margaret era più vecchia degli altri
studenti, aveva venticinque anni), mi svegliai, e la trovai seduta nello spazio
tra i due materassi. Stringeva le ginocchia al petto e singhiozzava piano. Il
viso era coperto dai lunghi capelli rossi e lisci. Le chiesi che cosa avesse. E
dovetti aspettare un’eternità, prima di avere una risposta.
«Sono maledetta», disse infine.
«No che non lo sei.» Poi ci pensai su e aggiunsi: «Cioè, dipende da cosa
intendi con ’maledetta’».
«Ci sono delle cose, su di me, che non sai.»
«Quali cose, Maggie?»
«Cose. E, quando le scoprirai, mi odierai. Lo so.»
La rassicurai, dicendole che non sarebbe mai successo, dal momento che
l’amavo.
«Non sono quella che credi. Cioè... lo sono, ma ho anche dei lati che non
conosci. Quello che pensi di me è vero solo in parte. Non sono come le
altre.»
«Oh, Maggie. Maggie.» Avevo trentun anni, allora, e il suo mi sembrava il
tipico dilemma da ragazzina. «Maggie, quello che stai passando capita a tutte
le persone che si laureano.»
Mi scrutò da sotto il velo dei capelli. Scosse la testa, e mi lanciò
un’occhiata devastante. «Se da domani le cose dovessero cambiare... Se
dovessero cambiare in peggio, intendo... Ecco, voglio che tu sappia che i
mesi che abbiamo passato insieme sono stati davvero stupendi. Amavo
questo seminterrato. Amavo l’idea di noi due qua sotto.» Mi diede un bacio
sulla fronte, un gesto che trovai vagamente condiscendente e, per la prima
volta dopo mesi, andò a sdraiarsi sull’altro materasso.
Dormì profondamente fino al mattino, mentre io non riuscii più a prendere
sonno. Rimasi lì sdraiato, a pensare a lei. Per quanto ne sapessi, era proprio il
risultato che voleva ottenere.
Ripensai a quando l’avevo incontrata in occasione del Commonwealth
Day, a dicembre. Eravamo stati a letto una volta, e non ero sicuro che la cosa
si sarebbe ripetuta. Quando mi aveva visto, era scoppiata a ridere, e mi aveva
chiamato per nome. Non aveva aspettato che fossi io a notarla per primo.
«Sono contenta di essermi messa gli stivali, alla fine», aveva detto. «Stavo
uscendo di casa con gli zoccoli invernali, ma all’ultimo momento ho deciso
di cambiarmi.»
Avevo lanciato un’occhiata alle sue scarpe. Erano di pelle nera e sottile, a
punta, col tacco a spillo; di certo non dovevano ripararla dal freddo. «Sono i
tuoi stivali buoni?»
Aveva riso. «Paragonati agli zoccoli, direi di sì. Perché, non sei
d’accordo?» Un’altra risata. «Ho avuto quella sensazione che ti prende
quando sai che stai per incontrare un tuo ex, o comunque un uomo da cui
vuoi farti vedere al meglio. Non immaginavo che si trattasse di te.»
«E se l’avessi immaginato li avresti indossati lo stesso?»
Aveva chinato la testa e sorriso, lentamente. «Sì.»
Quel suo modo lento di sorridere. Gesù Cristo.
Sull’altro materasso, Maggie russava. E io ripensai al giorno in cui le avevo
detto di amarla.
«Ti amo.» Qualcuno aveva suonato il clacson proprio in quell’istante,
coprendo le mie parole. Non ero sicuro che mi avesse sentito, così l’avevo
ripetuto. «Ti amo.»
Mi era sembrata perplessa, o contenta. (Sul volto di Maggie, di solito
imperscrutabile, queste due emozioni si manifestavano in modo molto
simile.) Non aveva detto nulla, però. Un momento dopo, era corsa via.
Erano passate all’incirca sei ore, quand’era squillato il telefono. «Ti amo.»
E aveva riattaccato.
Chissà se quelle sei ore avevano reso le sue parole più o meno
significative. Se mi avesse risposto subito, l’avrebbe fatto d’istinto, e non
sarebbe stato per forza un bene. Dopotutto, se spari a qualcuno è normale che
questi risponda al fuoco. Essendo passato del tempo, però, sapevo che quella
di Maggie non era stata un’affermazione dettata dall’istinto. Sapevo che
aveva meditato sulla mia dichiarazione, pensando alla risposta da darmi. Era
stata una lunga riflessione, è vero; ma avevo ragione di credere che alla fine
me l’avesse detto perché ci credeva davvero.
Quando gliel’avevo detto io, invece, avevo espresso un’emozione che, in
realtà, non provavo. Forse, quello che m’interessava era la sua risposta. O,
forse, volevo solo dirlo a qualcuno. A volte è l’ottimismo a spingerci a
mentire. Diciamo una cosa che non è del tutto vera nella speranza che lo
diventi. E nel mio caso ha funzionato. Mi sono innamorato di Maggie perché
aveva aspettato sei ore prima di confessarmi il suo amore.
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