La voce delle ombre – Frances Hardinge

SINTESI DEL LIBRO:
La terza volta che Makepeace si svegliò urlando, la madre andò su
tu e le furie.
«Ti ho de o di scacciare quegli incubi!» l’apostrofò bisbigliando
per non svegliare il resto della casa. «E qualunque cosa accada, di
non gridare!»
«È stato più forte di me!» mormorò la ragazzina, spaventata.
La madre le prese le mani, il volto teso e grave alle prime luci del
ma ino.
«Non ti piace la tua casa. Non vuoi vivere con tua madre.»
«Ma sì! Certo che sì!» esclamò Makepeace, sentendo il mondo che
le vacillava so o i piedi.
«Allora devi imparare a tra enerti. Se gridi ogni no e, accadranno
cose orribili. Ci cacceranno di casa!»
Appena dietro la parete dormivano la zia e lo zio di Makepeace,
proprietari del forno al pianterreno, schie a e chiassona lei, burbero
e scontroso lui. Sin da quando aveva sei anni, Makepeace accudiva i
cugine i piccoli e passava le giornate a imboccarli, pulirli,
rammendarne gli abiti, svestirli, recuperarli sugli alberi dei vicini. E
fra una cosa e l’altra dava una mano nelle faccende di casa e in
cucina. Ma nonostante tu o la ragazzina e sua madre dormivano su
un tavolaccio in uno stanzino gelido separato dal resto della
famiglia. Erano ospiti in quella casa, e la sensazione era che il loro
posto fosse un prestito, che si poteva revocare in ogni momento e
senza preavviso.
«Peggio ancora, qualcuno potrebbe chiamare il pastore» proseguì
la madre. «Oppure… altri potrebbero venirlo a sapere.»
Makepeace non aveva idea di chi potessero essere questi “altri”,
ma da sempre questa parola indicava una minaccia. In quei dieci
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anni di vita la madre le aveva insegnato che non ci si poteva fidare di
nessuno.
«Ci ho provato!» No e dopo no e Makepeace pregava con
devozione e poi andava a le o, al buio, concentrandosi con tu e le
sue forze per non sognare. Ma l’incubo arrivava lo stesso, fa o di
raggi lunari, bisbigli e figure deformi. «Che posso farci? Io vorrei
tanto che finisse!»
La madre tacque per un lungo istante, poi le strinse la mano.
«Ti racconterò una storia» cominciò a dire, come tu e le volte che
c’era in ballo qualcosa di serio. «Una bambina si perde e un giorno
nella foresta, e un lupo l’inseguiva. Lei correva senza sosta
graffiandosi e scorticandosi i piedi; il lupo ormai conosceva il suo
odore e l’avrebbe seguita in capo al mondo. La bambina capì allora
che era costre a a scegliere. Continuare a scappare e a nascondersi
all’infinito oppure fermarsi, raccogliere un bastone e affilare la punta
per difendersi. Secondo te quale sarebbe stata la decisione giusta,
Makepeace?»
Makepeace comprese che non si tra ava soltanto di una fiaba, e
che dare la risposta giusta era importantissimo.
«Si può comba ere un lupo con uno stecco?» domandò, dubbiosa.
«Uno stecco è un’opportunità.» La madre le rivolse un vago
sorriso triste. «Una piccola opportunità. Sme ere di fuggire, d’altro
canto, è pericoloso.»
Makepeace ci pensò su.
«I lupi corrono più veloci delle persone» disse infine. «Se anche
continuasse a scappare, presto o tardi il lupo la raggiungerebbe e la
sbranerebbe. Le serve un bastone appuntito.»
La madre annuì piano. Non aggiunse altro, e non concluse il
racconto. La ragazzina si sentì raggelare il sangue. Sua madre era
fa a così a volte. Le conversazioni diventavano enigmi che celavano
trappole, e ogni risposta comportava conseguenze.
Per quanto poteva ricordare Makepeace, lei e sua madre abitavano
da sempre in quella minuscola ci adina operosa. Non riusciva a
immaginare un mondo senza il fetore della pece e del fumo di
carbone dei grandi chiassosi cantieri navali, senza i pioppi che le
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davano il nome – Poplar – o senza le paludi verdi e labirintiche, dove
le greggi andavano a brucare. Londra incombeva qualche chilometro
più in là, con il suo ammasso caliginoso di minacce e promesse. Era
tu o familiare e semplice come respirare. Ma malgrado questo la
ragazzina aveva la costante sensazione che lei e la madre fossero un
corpo estraneo.
La madre non aveva mai de o: “Questa non è casa nostra”, non a
parole almeno. Ma i suoi occhi non dicevano altro.
Appena erano giunte a Poplar, la madre le aveva cambiato il
nome in Makepeace, per ingraziarsi la benevolenza della gente.
Makepeace non sapeva quale fosse il suo vero nome, e questo le
dava un senso di vaghezza, di indefinitezza. Makepeace, che
significava “creare pace”, non sembrava neppure un nome. Era
piu osto un’offerta di riconciliazione con Dio e con la gente devota
di Poplar. Era una richiesta di perdono per il vuoto in cui avrebbe
dovuto esserci il padre della bambina.
Tu i i loro conoscenti erano dei devoti. Era così che la comunità
stessa si definiva, devota, non per vanità ma per distinguersi da chi
seguiva la strada oscura che conduceva alle porte dell’Inferno.
Makepeace non era la sola ad avere un nome bizzarro da
ragazzina pia e osservante. Ce n’erano altre, e i loro nomi
significavano “Verità”, “Sia fa a la Sua volontà”, “Dereli a”,
“Redenzione”, “Scacciapeccato”, e così via.
Un pomeriggio sì e uno no la camera della zia ospitava incontri di
preghiera e le ure bibliche, e la domenica ci si radunava tu i
nell’imponente chiesa color grigio ardesia.
Il pastore era dolce e garbato quando lo si incontrava per la
strada, ma terrificante sul pulpito. Dai visi assorti dei fedeli
Makepeace comprendeva che da quell’uomo irradiavano grandi
verità, e una sorta di amore simile a una fredda cometa bianca.
Esortava i fedeli a resistere alle tentazioni malefiche dell’alcol e delle
scommesse e della danza; li invitava a rifuggire il teatro e le baldorie
oziose del sabato. Erano tu e trappole tese dal demonio. Raccontava
loro di quel che accadeva a Londra e nel mondo – gli ultimi
tradimenti a corte, le macchinazioni ordite da infami ca olici. I suoi
sermoni erano spaventosi ma esaltanti al tempo stesso. A volte
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Makepeace usciva dalla chiesa tu a euforica, immaginandosi l’intera
congregazione come un’armata di soldati dalle armature scintillanti,
uniti per lo are contro le forze dell’oscurità. Si persuadeva per
qualche a imo che anche lei e la madre facessero parte di qualcosa
di più grande e meraviglioso insieme ai loro conci adini. Era una
sensazione destinata a non durare. Quasi subito tornavano a essere
solamente un isolato esercito di due persone, distinte dal resto della
gente.
La madre non diceva mai: “Non sono nostri amici”, ma le
stringeva più forte la mano appena entravano in chiesa o si
addentravano al mercato o si fermavano a salutare qualcuno. Era
come se ci fosse uno steccato invisibile intorno a loro, che le separava
da tu i gli altri. E così lo stesso mezzo sorriso che la madre riservava
alle altre madri la ragazzina lo rivolgeva ai suoi coetanei; gli altri
bambini, quelli che avevano il padre.
I
bimbi erano piccoli sacerdoti del culto dei genitori, ne
osservavano ogni gesto ed espressione in cerca di segni della loro
volontà divina. Sin dai primissimi giorni di vita, Makepeace aveva
appreso che lei e la madre non erano mai davvero al sicuro, e che gli
altri avrebbero potuto tradirle.
Aveva così imparato a trovare conforto e vicinanza nelle creature
prive di parola. Comprendeva la malizia operosa degli inse i, la
rabbia e la paura dei cani, la pesante pazienza delle vacche.
Questa compassione finiva talvolta per cacciarla nei guai. Un
giorno era tornata a casa con una ferita al labbro e il sangue dal naso
dopo avere sgridato dei ragazzini che prendevano a sassate un nido
d’uccelli. Uccidere gli uccelli per nutrirsene o rubargli le uova per la
colazione andava ancora bene, ma la crudeltà o usa e fine a se stessa
la mandava davvero su tu e le furie. I ragazzini l’avevano guardata
sbalorditi, e avevano cominciato a prendere lei a sassate. Non c’era
di che stupirsi. La crudeltà era normale, faceva parte delle loro vite
quanto i fiori e la pioggia. Erano abituati alle bacche ate a scuola,
alle grida dei maiali dal retrobo ega della macelleria e al sangue
sulla segatura dopo le lo e dei galli. Devastare piccole vite piumate
era una cosa naturale e fonte di soddisfazione per loro quanto saltare
nelle pozze di fango.
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