La tristezza ha il sonno leggero – Lorenzo Marone

SINTESI DEL LIBRO:
Si dice che il carattere di una persona si formi nei primissimi anni di vita.
Sono i primi anni che influenzano tutto il resto. Una bella fregatura. Perché
basta che per un motivo o per l’altro quel periodo non vada per il verso
giusto, che sei rovinato per sempre. Hai voglia ad andare a cercare cos’è stato
a farti diventare come sei, qual è l’avvenimento che a un certo punto ti ha
fatto deviare dal percorso. Col tempo, il fatidico istante si perde nei meandri
della memoria e diventa quasi impossibile recuperarlo.
Per gli altri, forse. Non per me. Ero nel corridoio di casa, da un lato mia
madre e dal lato opposto mio padre. La crisi dei miei durava da sempre, ma
quella sera esplose con tutta la sua forza e lo tsunami fu devastante. A papÃ
toccò il divano, a me, invece, la scelta. Che non era da chi dei due farmi
portare a letto, ma a chi dei due voltare le spalle.
Mentre piangevo loro mi dicevano di stare tranquillo, che non era successo
nulla, ma io sapevo che non poteva essere così; se a cinque anni ti trovi a
dover scegliere fra tua madre e tuo padre non può essere tutto a posto.
In quel momento avrei dovuto prendere la prima decisione importante
della mia vita, invece mi accovacciai con le spalle al muro e chiusi gli occhi,
in attesa che uno dei due venisse a recuperarmi, mentre lo stomaco
gorgogliava.
Sono passati trentacinque anni e il povero organo non ha ancora smesso di
farsi sentire, di reclamare qualcosa di buono con cui nutrirsi davvero.
Come un opossum
Un anno fa mia moglie Matilde tornò dal lavoro e mi si piazzò davanti. Io ero
al computer e le rivolsi solo un rapido cenno del capo. «Erri» disse lei una
prima volta con voce glaciale.
«Solo un attimo» risposi e tornai allo schermo. L’indomani avevo un
appuntamento importante in ufficio.
«Erri...»
Sollevai la mano con l’indice puntato in aria, come a chiedere un istante
ancora di pazienza, solo che a lei il gesto non piacque per nulla e mi ritrovai
con il mio povero dito stretto fra le sue fauci.
Mia moglie mi stava mordendo! Mi girai, e mi sarei lasciato andare a un
urlo di sorpresa e dolore se non avessi incontrato i suoi occhi furenti. Fu in
quell’istante, con una mano nella sua bocca, che capii la terribile verità :
Matilde mi odiava.
Il suo sguardo carico di rabbia ancora mi perseguita, ancora, a distanza di
un anno, ha la forza di farmi tornare ai due occhi spietati di mia madre
quando mi chiudeva in un angolo e con il mestolo disegnava parabole
destinate a infrangersi sul mio avambraccio proteso a proteggermi. Solo che
io ero troppo veloce e lei troppo lenta, e così gran parte delle traiettorie si
frantumava sul muro alle mie spalle o nel vuoto, accrescendo a dismisura il
livello di odio tangibile nel suo sguardo. Per fortuna, a un certo punto io sono
diventato adulto e mia madre anziana, e quello sguardo è sparito dalla mia
vita e dai miei ricordi. Almeno fino all’anno scorso, finché Matilde non mi ha
serrato l’indice fra i denti.
Comunque, gli anni trascorsi a fuggire dall’ira inconsulta di mia madre mi
avevano addestrato, e la reazione fu repentina: ritrassi la mano con uno
strappo veloce e indietreggiai verso il muro, proteggendomi con il braccio
disteso. Matilde, però, non mi seguì come faceva mamma. Rimase a fissarmi
da lontano. Quando sollevai gli occhi, incrociai il suo volto impiastricciato: la
matita sciolta in una lacrima che le macchiava la guancia, i capelli arruffati e
il rossetto sbavato.
Avrei dovuto dire qualcosa, qualunque cosa potesse spezzare quel silenzio
nauseante, invece rimasi zitto. Come sempre.
Fu lei a parlare. «Almeno adesso mi starai a sentire.»
Mi accarezzai la pelle dell’indice ancora marchiata dai suoi incisivi e
tornai a guardarla. Aveva ottenuto la mia completa attenzione.
«Mi scopo Ghezzi» disse, senza alcuna sfumatura nella voce.
Silenzio.
«Ghezzi? Quel Ghezzi? Il responsabile marketing? Ma non ha
sessant’anni?» furono le uniche domande che mi uscirono.
C’erano non so quanti perché da chiedere che saremmo potuti rimanere lì
una settimana, come il predatore che deve stanare la sua preda. Invece con
una raffica di interrogativi idioti ero riuscito a zittire tutti quelli intelligenti
che pure mi roteavano nello stomaco, e tutte le possibili risposte di mia
moglie.
«Hai capito cosa ti ho detto? Mi scopo un altro.»
Ma io non avevo la forza di parlare, non avevo il coraggio di scegliere di
sapere. Così, lei proseguì: «Sono due mesi che me lo scopo».
Aveva ripetuto «scopo» per tre volte in un minuto, lei che nei quindici
precedenti anni di amoreggiamenti si era servita del verbo «scopare» una sola
volta, al culmine di uno dei nostri rapporti «mirati», come li chiamavano i
medici.
Per svariati anni i rapporti mirati hanno minato la nostra vita sessuale,
seppellendo il desiderio di entrambi. In sostanza, a decidere quando
dovevamo «scopare» era il suo ginecologo, che si divertiva a trovare gli orari
e le situazioni più allucinanti, come la volta in cui dovetti raggiungere
l’erezione nel bagno del Frecciarossa perché Matilde era in ovulazione e per
arrivare a Napoli mancavano ancora quattro ore. Quando mi andava bene,
invece, lei telefonava in ufficio e io correvo a casa, mi allentavo la cravatta,
mi calavo i pantaloni e mi avvicinavo a lei che il più delle volte si faceva
trovare già sul tavolo della cucina. E fu proprio in una di queste occasioni che
Matilde si lasciò andare all’urlo in questione, un urlo continuato, disumano,
liberatorio e animalesco, che mi pregava di scoparla senza sosta, come un
opossum.
Mi sono spesso domandato se l’opossum sia un grande amatore o un
fedele servitore.
Ma torniamo a quella sera. Restammo a guardarci per un tempo che mi parve
infinito, poi Matilde si sfilò gonna, slip, maglietta e reggiseno, e rimase nuda
davanti a me. Ero così inebetito da anni di rapporti mirati che mi venne da
chiederle un’unica cosa.
«Stai ovulando?»
Lei socchiuse gli occhi e si lasciò vincere da una smorfia di disgusto,
quindi si voltò e, senza dire una parola, si avviò in bagno. Mentre sentivo il
getto dell’acqua che, immagino, le cancellava la saliva bavosa di Ghezzi dalla
pelle e fissavo i suoi indumenti sparsi per terra, avrei potuto fare diverse cose:
correre in bagno e urlarle il mio rancore. Oppure, avrei potuto afferrare la
valigia da sopra l’armadio e riempirla delle poche cose che mi sarebbero
servite per la notte. Meglio ancora, avrei potuto farle trovare la valigia giÃ
pronta e invitarla ad andarsene per sempre.
Invece, mi accovacciai con le spalle al muro e attesi ancora una volta che
fosse qualcun altro a decidere della mia vita.
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