La terra dei pirla – Germano Lanzoni

SINTESI DEL LIBRO:
Ultimi secondi del supplementare, partita contro i rivali storici.
Avevo il compito di marcare il portatore di palla, un ragazzino tanto
bravo quanto stronzo, a volte la natura distribuisce le qualità in
modo curioso. Sta di fa o che il “nemico perfe o” ce l’avevo davanti
con il possesso palla e mancavano sei secondi, noi so o di un
canestro. Obie ivo: recuperare palla e tentare il tiro della vita.
Tu a la partita era stata un confli o più psicologico che sportivo:
si difendeva marcando a uomo, quindi giocavi più vicino al tuo
avversario che al tuo compagno.
Io dovevo curare il numero dieci, e lui aveva lo stesso compito,
praticamente avevamo lo stesso destino. La tecnica degli insulti
personali era molto diffusa, per depotenziare il tuo avversario,
sopra u o nel campionato juniores Nord Milano: nel primo quarto
di gioco avevamo già finito tu i i parenti, il resto del match è stato
un mix tra spintoni, avvertimenti, minacce di bo e e colpi bassi.
Insomma, uguale a ogni domenica pomeriggio in una discoteca di
periferia, al circolino di Cusano o al Queen Out di Bresso, ma con
l’aggravante che c’erano gli arbitri: una sfida stimolante, perché
dovevi monitorare il contesto e aspe are il momento giusto per
affondare o schivare il colpo. Non era una partita, era un duello tra
due maschi alfa in età ormonale e in debito d’ossigeno.
Sei secondi alla fine, lo stronzo tenta un passaggio, il mio compagno
di squadra riesce a interce are e parte in contropiede, si alza ai bordi
dell’area piccola e tira, ma la palla rimbalza sul canestro ed esce.
Rimessa laterale avversaria, fine.
Su quel ferro non s’infrange solo la palla, ma anche il mio senso di
rivalsa e la mia sfida personale contro lo stronzo che aveva
determinato il verde o: sconfi o.
Nel preciso istante in cui avrei dovuto porgere l’onore alle armi
riconoscendo ai vincitori i loro meriti, un dito punta verso di me, e
non è un indice. Il sorriso maligno del numero dieci dà il colpo di
grazia alla mia rabbia. Il mio cervello va in stand by.
Parto in un terzo tempo degno dell’NBA, due passi e un salto verso
lo stronzo, lui scappa, riesco a prenderlo prima della fuga
esa amente vicino alla sua panchina, lo a erro con una presa di
wrestling, alzo il braccio come Thor e carico il pugno, ma non calcolo
la distanza di sicurezza: in un a imo tu i i giocatori avversari seduti
sulla loro panchina decidono di entrare in campo senza rispe are
l’ordine del coach di stare indietro, e così mi ritrovo so o una
montagna di corpi. Pure i miei compagni indemoniati dalla sconfi a
si ge ano nel mucchio, aumentando il volume della piramide
umana. E anche il pubblico decide di dare una mano, ma in faccia
all’arbitro. Insomma, sembra di stare sul set di un film con Bud
Spencer. Intorno a me si scatena l’inferno, ma io non sento nulla.
Come so o anestesia totale.
Quando mi tolgono dalle spalle l’ultimo giocatore, l’immagine è
questa: lui, il numero dieci, lo stronzo, terrorizzato come la prima
vi ima nelle mani di un serial killer in una puntata di Criminal
Minds, è ancora so o di me; io, immobile: avrei potuto tirargli non
uno, ma una raffica di colpi, invece mi accorgo che ho ancora il
pugno in canna.
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