La Pergamena del Tempio – Tania Paxia

SINTESI DEL LIBRO:
“Rosen”, una ragazza dai capelli scuri, raccolti in uno chignon e
con un folto ciuffo che le ricadeva sugli spessi occhiali da nerd,
molto alla moda, rispose al cellulare, con il suo consueto tono
sicuro.
“Tesoro, puoi venire a casa? C’è…una cosa…di cui dobbiamo
parlare”.
“Mamma”, le rispose scontrosa. “Non ho tempo. Puoi dirmelo
per telefono?”
“No”, rispose secca, “riguarda tuo padre”.
L’ispettore Fontana Angel Rosen, giovane venticinquenne,
detective di una delle sezioni investigative del CID – Crimilan
Investigation Department – di Scotland Yard, alzo gli occhi al cielo. Il
solo sentir parlare di suo padre, le faceva scappare la pazienza.
“Non ho tempo”, ripeté a sua madre. “Scusa, sono in servizio.
Adesso devo lasciarti”.
Dopodiché riattaccò, gettando con un gesto stizzito il cellulare
sulla scrivania.
Non era sempre così scontrosa, ma ‘suo padre’, non era un
argomento di cui le piacesse parlare. Era cresciuta solo con la
madre, Suzanne Rosen, perché suo padre non aveva avuto
intenzione di crearsi una famiglia. Era scomparso nel nulla non
appena Suzanne lo aveva informato che presto sarebbe diventato
padre. Non l’aveva riconosciuta come figlia e non le aveva
consentito di portare il suo cognome. Almeno era quanto le aveva
sempre raccontato sua madre. Però, da bambina fantasticava
sempre su di lui; aveva ideato decine di ipotesi: suo padre era in giro
per il mondo, impegnato a salvarlo dai cattivi o lo aveva immaginato
come un archeologo in cerca di qualche avventura, oppure ancora,
un killer professionista, che passava da un Paese all’altro in cerca
della prossima vittima assegnata. Aveva pensato persino che
potesse essere un soldato che prestava servizio in uno Stato
straniero per apportare il suo aiuto agli abitanti del luogo. E una volta
risolto tutto, sarebbe tornato a casa da lei e sua madre, così da poter
diventare finalmente una famiglia. Ma con il passare degli anni
aveva compreso che suo padre non sarebbe mai tornato.
Per il suo diciottesimo compleanno, Suzanne, le aveva rivelato il
nome di suo padre e altri piccoli dettagli sulla sua vita: “Si chiama
Enrico Puccini ed è italiano”. Aveva aggiunto che si erano conosciuti
nella biblioteca dell’Università frequentata da lei, poco prima di
laurearsi in Storia.
Fontana aveva tentato, in seguito, di fare delle ricerche, grazie
all’aiuto di un suo amico investigatore, ma non era riuscita a trovare
niente sul suo conto. Era peggio di un fantasma, non aveva lasciato
tracce.
A quel punto aveva anche pensato che sua madre le avesse
mentito. Avevano avuto una brusca lite in proposito.
“Rosen!” si sentì chiamare. “È la quarta volta che ti chiamo!” la
rimproverò il suo compagno di appostamenti, un uomo sui
trent’anni, alto e atletico, dalla folta capigliatura spettinata, che la
fissava dall’altro lato della stanza. “Allora? Vogliamo muoverci?”
Fontana, senza rivolgergli la parola, prese il cellulare e afferrò la
giacca appoggiata sullo schienale della sedia, infilandosela alla
svelta, mentre si incamminava a passo svelto verso l’uscita
dell’ufficio.
2
Fontana era appena rientrata nel suo piccolo – microscopico, a
dire il vero – appartamento, nel quartiere di Soho. Erano le dieci e
mezzo di sera ed era stanca morta: aveva avuto una giornata
estenuante e le uniche cose che aveva voglia di fare erano un bel
bagno caldo e mangiare la sua solita pizza surgelata, cotta al
microonde.
Gettò le chiavi sul tavolo della cucina-soggiorno e lanciò le
scarpe vicino al piccolo divanetto, che fungeva anche da letto. In
quel momento notò che la spia rossa della segreteria, poggiata
sopra al mobiletto vicino all’entrata. Lampeggiava a un ritmo
forsennato, frenetico. Così, incuriosita, schiacciò il pulsante per
ascoltare i messaggi registrati.
“Ma insomma”, la voce arrabbiata di sua madre echeggiò
tutt’intorno. “Non rispondi al cellulare e neanche a casa. Ma dove
sei? Trova il tempo per venire qui. Dobbiamo parlare. È
importante”.
Si chiese quale fosse il motivo di tanto sconcerto, ma prima che
avesse avuto il tempo di pensare a una risposta, la memoria della
segreteria, passò al secondo messaggio registrato. La voce
profonda di un uomo invase la stanza. Parlava in italiano.
“Signorina Rosen, chiamo dall’Italia, per conto dello studio
notarile per cui lavoro. Suo padre mi ha dato questo numero per
contattarla”, fece una pausa prima di proseguire.
Ecco. Pensò Fontana. Ma cos’è oggi? La giornata dedicata al
padre di Fontana? Prima mia madre, adesso questo tipo…
Poi la voce riprese a parlare, dopo aver sospirato. “Non appena
ascolterà questo messaggio, per favore, mi richiami. Non si
preoccupi per l’ora. Le lascio il mio numero di cellulare, così potrà
raggiungermi in qualsiasi momento”.
Dopo aver scandito una cifra alla volta, lentamente, ripeté il
numero, questa volta più veloce.
Fontana riascoltò il messaggio ancora una volta e ricopiò,
controvoglia, il numero del notaio su un blocchetto di post-it color
fucsia. Rimase a fissare quel numero per qualche minuto. Non
sapeva cosa fare. Perché avrebbe dovuto richiamarlo? Non voleva
avere niente a che fare con suo padre, né con i suoi affari, qualsiasi
fossero stati. Così strappò la pagina dal blocchetto e la accartocciò
stringendola nella mano.
Se ne pentì poco dopo. Se non avesse richiamato il notaio, con
ogni probabilità lui avrebbe continuato a chiamare e a lasciare
messaggi in segreteria, angosciandola ogni giorno di più. Quindi
srotolò la carta e compose il numero. Almeno avrebbe risolto la
questione e non ci avrebbe pensato più.
“Pronto? Chi parla?” rispose la stessa voce profonda del
messaggio in segreteria.
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