La manutenzione dei sensi – Franco Faggiani

SINTESI DEL LIBRO:
Mi si era presentato davanti in camice bianco immacolato, scarpe in pelle
tirate a specchio, occhialini tondi e una cartellina in mano. Aveva finto di
scrutarvi un foglio e aveva emesso la diagnosi, anzi la sentenza, con un velo
di mestizia: «Dottor Guerrieri... la pompa della benzina...». Mancava
aggiungesse solo, con un sospiro, «non ce l’ha fatta», ed eravamo a posto.
Conclusione: impianto nuovo e un sostanzioso prelievo dal portafoglio,
già di per sé malmesso.
«E almeno una settimana di lavoro, dottor Guerrieri», aveva mormorato
sommessamente.
Almeno una settimana? Ma togliti quel camice da primario,
quell’espressione da professorino, rimboccati le maniche e vai di là a
lavorare, altro che una settimana.
Così avevo pensato.
«Va bene», avevo detto invece. «Posso avere un’auto sostitutiva?».
«Mi spiace, al momento sono tutte fuori. Ne può eventualmente prendere
una a noleggio. A un prezzo conveniente, vista la necessità ».
«Non fa niente, andrò a piedi. Camminare migliora l’umore».
Maledetti i giapponesi e le loro auto...
Una lunga convivenza e 270.000 chilometri alle spalle passati via lisci,
mai un guasto serio. Poi la mia vecchia Nissan mi aveva mollato senza
nemmeno un gemito d’avvertimento. Sapevo che prima o poi sarebbe
successo, ma non doveva succedere proprio quel giorno. Il primo istinto era
stato prenderla a martellate e abbandonarla lì sotto gli alberi della stazione
centrale, e lasciare che le cacche degli storni che a migliaia passavano la notte
sui grandi platani lì intorno la ricoprissero fino a corroderla del tutto. Targa e
gomme comprese. E fine della storia.
Poi però, pensando alla partenza, ero entrato dal primo meccanico
incontrato lungo la strada e l’avevo fatta trainare alla concessionaria.
Mi avevano fatto imbestialire anche quelli di Canessa, la ditta dei
traslochi, con voi dal 1927. Figuriamoci. Ero rientrato a casa a passo svelto,
sudato e confuso sul da farsi. Martino dormiva su una stuoia stesa sul parquet
perché in casa non erano rimasti mobili. A tenerlo svogliatamente d’occhio
c’era la figlia della portinaia, seduta su uno sgabello che si era portata su
dalla guardiola. L’avevo sorpresa a giocare con il mio cellulare, che avevo
incautamente lasciato su uno dei venti scatoloni pieni di libri: gli ultimi da
portar via, insieme a poche altre cose sparse per le stanze ormai spoglie.
A lei però non era sembrato affatto strano controllare i miei messaggi. Mi
ci era voluto qualche secondo per cancellare l’idea di insultare anche lei.
Giovane sì, ma impicciona di prima categoria.
«Ha suonato, così ho risposto», mi aveva detto con tono annoiato,
porgendomi l’apparecchio con lo schermo reso opaco dall’unto delle sue
ditate.
«Come no. E chi era?».
«Quelli dei trasporti. Hanno detto di avere un contrattempo, arriveranno
con un po’ di ritardo».
Accidenti anche ai facchini e agli autisti. Arrivare dopo l’orario stabilito
da loro stessi e magari senza una giustificazione plausibile era una cosa che
non sopportavo. Avrei dovuto farci le ossa, perché nell’efficiente Milano, di
professionisti precisi negli appuntamenti, nei lavori, nei pagamenti, ne avevo
sempre incontrati ben pochi. La metropoli efficiente... ma quando mai?
Comunque in questa storia dei traslochi la colpa era mia. Negli ultimi
quindici anni avevo cambiato casa almeno tre volte, sempre con questi
personaggi, per via di una remota amicizia di mio padre con il commendator
Canessa, e mai una volta erano stati puntuali. Non dico ritardi di mezz’ora,
ma mezze giornate.
Per fortuna era l’ultimo viaggio del camion, poi tutto sarebbe finito.
Almeno qui, in questa città , che tanto mi aveva dato, ma di più mi aveva
tolto.
L’appartamento l’avevo venduto, e così anche i quadri di valore che
conteneva e gran parte dei mobili antichi che negli anni erano stati scelti con
scrupolo e passione. Gli armadi, le pesanti librerie e quel che c’era in cucina
lo avevo regalato all’Istituto Maria Ausiliatrice, dove Chiara, mia moglie, e
poi Nina, nostra figlia, erano andate spesso a fare volontariato. A ritirare la
roba, con un furgone a noleggio e le maniche rimboccate oltre il gomito,
erano venute due suore svelte e forti come scaricatori di porto. Forse avrei
dovuto chiamare loro per il trasloco di quello che era rimasto in casa. Altro
che Canessa.
Man mano che il tempo passava – fortunatamente Martino continuava a
dormire, una delle sue occupazioni primarie – nel mio dizionario mentale
aumentava il grado degli insulti che avrei spiattellato in faccia agli uomini del
trasloco. Insomma, una giornata nervosa. Ma quando tre ore e mezza dopo
avevano suonato alla porta e m’ero trovato di fronte i due energumeni, li
avevo accolti con molta gentilezza.
«Ci scusi capo, ma in tangenziale Sud era tutto bloccato», aveva cercato
di giustificarsi quello dalle sembianze di Ivan il Terribile.
«Non fa niente ragazzi, conosco le code in tangenziale... Mi spiace, non
posso offrirvi neanche un caffè, è tutto imballato».
«Appena preso capo, grazie», aveva detto l’altro, più piccolo di Ivan ma
più palestrato e tatuato come mai avevo visto prima, neanche quando avevo
frequentato, solo per cercare di darmi un’aria da duro, l’Élite Boxing Club di
Porta Vittoria.
Mentre portavano giù gli scatoloni dei libri e dei computer, le lampade e i
pochi oggetti che non erano riusciti a incastrare nel viaggio precedente, avevo
svegliato Martino, arrotolato sulla stuoia come un gatto nella cesta dei
gomitoli di lana.
«Ehi Marti, dai che fra poco si va, finalmente. Da domani vita nuova. Sei
contento?».
Lui aveva improvvisamente spalancato gli occhi – faceva sempre così al
risveglio – come uno che s’era ricordato di un appuntamento importante
ormai perso. Non aveva risposto alla domanda, ma si era limitato a guardare
fisso oltre le mie spalle, nella stanza sgombra.
In meno di un’ora i due di Canessa avevano caricato tutto.
Gli avevo dato cinquanta euro di mancia.
«Ragazzi, posso chiedervi un grosso favore?».
«Dica dottore». Ivan mi aveva promosso di grado dopo aver notato un
altro pezzo da cinquanta euro che stiravo tra le dita. Il socio invece scrutava
Martino, apparso silenziosamente in quella stanza che per anni era stata il
mio studio.
«Non è che avreste posto anche per noi due? Ho avuto un guaio con la
macchina e siamo a piedi. Potremmo prendere il treno e poi noleggiare
un’auto, ma arriveremmo nella nuova casa al buio e...».
«Ma che treno, si figuri», aveva risposto il tatuato afferrando con una
certa rapacità gli altri cinquanta euro. «In cabina c’è posto per tutti. Basta che
tenga d’occhio il suo ragazzino. È magro magro, se si infila tra i sedili chi lo
trova più».
Mentre i soldi sparivano nel taschino della camicia del giovanotto, avevo
guardato Martino che muoveva appena le labbra. Forse voleva dire la sua, ma
si era limitato a ondeggiare un po’, muovendo le mani in segno di disappunto.
Anche se dentro di me era rimasta salda la convinzione che avrei dovuto
comunque farmi valere, ero stato gentile fin dall’inizio perché, quando
avevano suonato alla porta, m’era saltata in testa l’idea di chiedere un
passaggio. Certo, quelle tre ore e mezza di ritardo e quel viaggio di duecento
e passa chilometri a ritmo probabilmente blando, anche per via del
rifornimento di carburante, dei caffè lungo la strada e del traffico del venerdì
sera – dunque tangenziale in coda, autostrada con deviazioni, statale con
furgoncini davanti e infine un pezzo di strada provinciale tutta curve e salite a
tratti impegnative anche per un fuoristrada –, avrebbero scombussolato il
programma. Saremmo probabilmente arrivati a destinazione in tarda serata,
orario a cui bisognava aggiungere il tempo per scaricare tutto nel piccolo
magazzino che avevo affittato non lontano dalla nostra nuova casa, che era
costruita su un piccolo altopiano boscoso, dove, come si era dimostrato nei
due viaggi precedenti, l’automezzo di Canessa non sarebbe mai riuscito a
salire. La strada, che partendo dalla piazzetta del borgo svaniva in un prato
incolto nei pressi della nostra destinazione, era ripida, sterrata e piena di
buche. Saremmo insomma arrivati troppo tardi per organizzare una cena e
crearci una sistemazione decente per passare la prima notte in un posto
decisamente diverso dal solito e così isolato.
Appena saliti sul camion, schiacciati tra i due energumeni che emanavano
prepotenti odori di sudore e cattivo tabacco, avevo chiamato al telefono
Daniele Bermond, chiedendogli di tenerci da parte qualcosa da mangiare e
due letti nella stanza più calda del suo agriturismo. Almeno un po’ di
conforto a conclusione di una pessima giornata di metà maggio, che invece
sarebbe dovuta essere felice.
Gran parte delle decisioni prese nei miei primi cinquant’anni erano state
spesso intercambiabili, se non addirittura in contrasto tra loro. Qualcuna però
ero riuscito a portarla fino in fondo, come quella di prendere il rudere che
Chiara aveva tanto desiderato ma che non aveva potuto avere.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo