La passione di Artemisia – Susan Vreeland

SINTESI DEL LIBRO:
Mio padre mi camminava accanto per darmi coraggio e con la
mano sfiorava lieve i pizzi che ornavano le spalle del mio corpetto. La
luce abbagliante, quasi allo zenit, infuocava già le pietre che
pavimentavano la piazza. Sopra Tor di Nona, l'ombra immobile del
nodo scorsoio dell'Inquisizione, il tribunale papale, si proiettava in
modo sinistro sul muro e il suo profilo pareva l'immagine di una
lacrima.
«Un disagio di breve durata, Artemisia», disse mio padre,
guardando diritto davanti a sé. «Non più di una piccola strizzatina».
Stava parlando della sibilla.
Se, con le dita strette dalle funi, avessi reso la stessa testimonianza
della settimana precedente, avrebbero compreso che dicevo la verità e
il processo sarebbe terminato. Processo non mio. Continuavo a
ripetermi che non ero io quella sotto processo. Agostino Tassi era sotto
processo.
Mi risuonavano nelle orecchie le parole della denunzia che mio
padre aveva sporto presso il papa Paolo V: «Agostino Tassi ha
deflorato mia figlia Artemisia e l'ha forzata a ripetuti atti carnali,
dannosi anche per me, Orazio Gentileschi, pittore e cittadino di Roma,
povero querelante, tanto che non mi è stato possibile ricavare il giusto
guadagno dal suo talento di pittrice».
Avrei voluto che nessuno lo sapesse, nemmeno lui. Ma un giorno
mi aveva sentito piangere e mi aveva costretto a confessare. E poi c'era
anche quel dipinto sparito, un dipinto che Agostino aveva ammirato,
perciò mio padre aveva accusato lui.
«Una strizzatina lunga quanto?» gli chiesi.
«Finirà presto».
Non guardai nessuno nella folla che s'era raccolta all'entrata di Tor
di Nona. Sapevo già che cosa avrei letto in quei volti: curiositÃ
malsana, accusa, disprezzo. Guardai invece il caprifoglio giallo che
fioriva contro le pareti a stucco ocra romano. Ogni colore faceva
vibrare di più l'altro. Me lo aveva insegnato papà .
«Fiori profumati», gridavano i mendicanti, offrendoli alle donne
che erano venute ad assistere all'udienza in quell'aula ammuffita.
Pronti a tutto per un giulio. Uno zoppo mi mise in mano un fiore
avvizzito, fetido d'urina. Sapeva che ero Artemisia Gentileschi. Lo
lasciai cadere sul suo ginocchio deforme.
Quando entrammo nella sala del tribunale, umida e scura, la gola,
già secca, mi si serrò. Lasciai papà nella prima fila di panche e, saliti i
due gradini, mi sedetti al mio solito posto, di fronte ad Agostino Tassi,
amico e collaboratore di mio padre. Il mio stupratore. Era appoggiato
sul gomito e non si mosse quando mi sedetti. I capelli neri e la barba
gli erano cresciuti parecchio e avevano un che di selvaggio.
Il viso, più bello di quanto meritasse, aveva il colore e la durezza di
una scultura di bronzo.
Dietro un tavolo, il notaio papale, un ometto avvolto di rosso
porpora scuro, stava facendo la punta alla penna d'oca con un coltello,
lasciando cadere a terra i trucioli. Sulle mani gli pioveva un raggio di
luce polverosa, che veniva da un'alta finestra e gli illuminava le pieghe
della manica, tingendole di lavanda. «Quattordici, maggio, 1612»,
borbottò scrivendo. Due mesi, e questo era il primo giorno che non gli
vedevo sulla faccia un'espressione annoiata. Il giorno in cui sarei stata
vendicata. Mi premetti le mani contro le costole.
Entrò d'un tratto l'Illustrissimo Signore Hieronimo Felicio,
luogotenente di Roma, nominato giudice e inquisitore da Sua Santità .
Si sedette su un alto scranno, sistemandosi la veste scarlatta in modo
da apparire più imponente.
I funzionari papali assumevano sempre delle pose teatrali in
pubblico. Sotto il berretto di seta, le guance erano cadenti come frutti
troppo maturi. Era seguito da un omone dalla testa rasata. Le spalle gli
scoppiavano dalla tunica di pelle senza maniche. Era l'"assistente" di
tortura.
Fui invasa da un'ondata rovente di terrore. Con un cenno del dito,
l'alto luogotenente gli ordinò di tirare una tenda leggera attraverso la
stanza, che ci avrebbe separati da papà e dalla plebaglia che
s'accalcava sulle panche. La tenda non c'era nelle altre udienze.
Il luogotenente aggrottò la fronte e le feroci sopracciglia nere si
unirono, formando come un'ombra. «Lei comprende, signorina
Gentileschi, il nostro scopo». La voce era scivolosa come olio di semi
di lino. «Le Sibille delfiche dicevano sempre la verità ».
Ricordavo la Sibilla delfica sul soffitto della Cappella Sistina.
Michelangelo l'aveva ritratta come una donna possente, con uno
sguardo allarmato per ciò che sta vedendo. Papà e io eravamo rimasti
a contemplarla in silenzioso stupore, stringendoci le mani per
contenere l'eccitazione. Forse la sibilla avrebbe dato solo una stretta
come quella.
«Allo stesso modo, la sibilla non è che uno strumento volto a far
affiorare la verità alla bocca delle donne. Vedremo se persisterà nella
sua testimonianza». Strizzò gli occhi caprini. «Mi chiedo che effetto
potrà avere, stringere le corde, sulla capacità di un pittore di tenere in
mano un pennello nel modo corretto». Avvertii dei crampi allo
stomaco.
Il luogotenente si rivolse ad Agostino: «Anche voi siete un pittore,
signor Tassi. Lo sapete che cosa può fare la sibilla alle dita di una
giovane?»
Agostino non batté ciglio.
Strinsi le dita a pugno. «Che cosa può fare? Ditemelo».
L'assistente mi costrinse ad allargare le mani, avvolse una lunga
corda attorno alla base di ciascun dito e poi mi legò le mani palmo
contro palmo e i polsi e avvolse la corda di nuovo attorno a ciascun
paio di dita, come un viticcio.
Vi attaccò una mostruosa vite di legno e la girò quel tanto che
bastava perché le corde tirassero un po'.
«Che cosa può fare?» gridai. Cercai papà attraverso la tenda. Era
sporto in avanti e si tirava la barba.
«Niente», disse il luogotenente. «Non può fare niente, se dite la
verità ».
«Non mi può tagliare le dita, vero?»
«Questo, signorina, dipende da voi».
Le dita presero leggermente a pulsarmi. Guardai papà .
Mi fece un cenno rassicurante.
«Diteci adesso, perché sono sicuro che intendete ragione, avete
avuto rapporti sessuali con Geronimo il Modenese?»
«Non conosco nessuno con questo nome».
«Con Pasquino Fiorentino?»
«Non conosco nemmeno lui».
«Con Francesco Scarpellino?»
«Questo nome non mi dice nulla».
«Col chierico Artigenio?»
«Ve l'ho detto. Non conosco nessuno di questi uomini».
«E' una bugia. Mente. Vuole screditarmi per prendersi le mie
commissioni», disse Agostino. «E' una puttana insaziabile».
Non riuscivo a credere alle mie orecchie.
«No», urlò mio padre. «Sta cercando di farla passare per una
puttana per evitare le nozze riparatrici. Vuole rovinare il nome dei
Gentileschi. E' geloso». Il luogotenente lo ignorò e arricciò le labbra.
«Avete avuto relazioni sessuali con vostro padre, Orazio Gentileschi?»
«Se aveste detto una cosa del genere fuori da quest'aula di
tribunale, avrei sputato», mormorai.
«Stringete!» ordinò il luogotenente.
La vite mostruosa scricchiolò. Trattenni il respiro. Le corde ruvide
mi segavano la base delle dita, brucianti. Alle orecchie mi giunsero, da
oltre la tenda, dei brusii, che avvertii come un ruggito.
«Signorina Gentileschi, quanti anni avete?»
«Diciotto».
«Diciotto. Non così giovane da non sapere che non dovreste
offendere chi vi interroga. Riprendiamo. Avete avuto rapporti sessuali
con un attendente del nostro Santo Padre, il defunto Cosimo Quorli?»
«Lui... ha tentato, Vostra Eccellenza. Lo aveva portato in casa
Agostino Tassi. L'ho respinto. Mi avevano insidiato entrambi.
Lanciandomi sguardi lascivi. Bisbigliando allusioni».
«Per quanto tempo?»
«Per molti mesi. Un anno. Avevo appena diciassette anni quando
hanno cominciato»
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