La notte del drive-in – Joe R. Lansdale

SINTESI DEL LIBRO:
Suppongo che, in ultima analisi, tutto questo somiglierà a una
versione perversa di quegli stupidi temi che ogni autunno, dopo le
vacanze, vi fanno scrivere a scuola. Avete presente? Come ho
trascorso le vacanze estive.
Credo sia inevitabile.
E secondo me, è cominciata
così.
Era sabato mattina, la mattina dopo una notte all’Orbit.
Tornavamo a Mud Creek. Puzzavamo di birra, popcorn, e tavolette di
cioccolato.
I
nostri occhi erano annebbiati, e i cervelli ancora di più. Ma
eravamo troppo su di giri, o forse troppo stupidi, per andare a casa.
Così, facemmo quello che facevamo di solito. Andammo alla sala da
biliardo.
La sala da biliardo, o Dan’s Piace, come si chiamava, è un brutto
locale in una brutta zona di una città nell’insieme piuttosto carina. È
la zona dove senti parlare di accoltellamenti e di riunioni della mala,
di donne da venti dollari, di whisky a distillazione clandestina e di
spaccio di droga.
Da Dan si beveva birra; oltre ai tavoli da biliardo, c’era anche un
bar. In teoria, non si serviva birra prima di mezzogiorno, ma Dan e i
tizi che frequentavano il locale erano molto scarsi in teoria.
Quel mattino, quando entrammo, c’era qualche cliente maschio.
Quasi tutti avevano una quarantina d’anni o anche più. Bevevano da
lunghi boccali, coi cappelli in testa o sul banco o su uno sgabello.
Quelli senza cappello e stivali da cowboy indossavano tute blu o
grigie e logori stivali da lavoro, e per quanto uno potesse entrare in
silenzio, quelli ti sentivano sempre e si giravano a guardarti con aria
di disapprovazione.
Il locale avrebbe dovuto essere off limits per i minorenni, ma chi
eravamo noi per dirlo, e nemmeno Dan diceva qualcosa. Non che
noi gli piacessimo, però gli piacevano i nostri soldi per i tavoli da
biliardo, e una volta ogni tanto, quando si sentiva coraggioso e ci
sentivamo coraggiosi anche noi, ci lasciava comperare una birra,
come se ignorasse la nostra età.
Però c’era questo: la sua aria ci faceva sempre capire che
avrebbe accettato i nostri soldi, ma anche che per una ragione
minima, o per nessunissima ragione, per puro divertimento, non gli
avrebbe dato fastidio ucciderci. E pareva capace di ucciderci senza
versare una goccia di sudore. Era piuttosto grasso, ma il suo era
grasso sodo, come se sotto la T-shirt troppo aderente ci fosse una
grossa bacinella di ferro. E le sue braccia erano grandi e carnose.
Non braccia da culturista, ma braccia da operaio; braccia che
avevano lavorato sul serio, che avevano sbattuto fuori ubriachi e, da
quanto avevo sentito dire, picchiato mogli. Aveva anche delle strane
nocche; nocche che avevano cambiato i connotati a molti tessuti
facciali come se fossero stati plastilina e che poi, a loro volta,
avevano modificato i propri connotati.
Noi, però, andavamo lì come uomini votati a una missione
suicida. Da quel posto volevamo ottenere certe cose. Aveva le sue
attrattive. Per dirne una, era proibito, e questo era attraente. Ci dava
la sensazione di essere adulti. Il pericolo aleggiava nell’aria come
una spada sospesa sopra un capello, e finché il capello non si
spezzava e la spada non scendeva, la cosa era stimolante.
Da Dan avevamo conosciuto Willard. Lo avevamo trovato lì la
prima volta che eravamo entrati, cioè più o meno all’epoca in cui
avevamo cominciato a frequentare il drive-in. Probabilmente
avevamo pensato che, se ci davano il permesso di stare fuori tutta la
notte, potevamo anche spingerci nella parte dura della città e
giocare a biliardo. Magari parlare un po’ delle donne da venti dollari
alle quali non osavamo parlare (non eravamo nemmeno sicuri di
averne vista una sola) per paura di essere costretti a tirare fuori i
soldi e darci sotto. Nessuno di noi era certo di desiderarlo. Avevamo
sentito storie vaghe su virus e insetti carnivori che crescevano
rigogliosi nel pelo pubico delle donne da venti dollari, e pensavamo
che loro conoscessero così tanti trucchetti, e noi così pochi, che
nelle lerce stanze d’hotel dove progettavamo di consumare le nostre
transazioni economiche sarebbero risuonate risate femminili, invece
dei soddisfacenti cigolii delle molle dei letti.
Ma la sala da biliardo e la possibilità di una morte violenta non ci
turbavano quanto l’imbarazzo sessuale, così il sabato andavamo lì a
giocare e a guardare giocare Willard.
Alla prima occhiata, Willard pareva mingherlino. Ma uno studio
più attento lo rivelava alto, snello e muscoloso. Quando si piegava
sul tavolo per un colpo e lasciava scivolare la stecca sulla punta del
pollice, vedevi i muscoli correre sotto la pelle, e i tatuaggi sui suoi
bicipiti si gonfiavano così in fretta da sembrare cartelloni pubblicitari
visti in autostrada sfrecciando a tutto gas. Il tatuaggio di sinistra
diceva CALCINCULO, e quello di sinistra MANGIAFREGNE. Era ovvio che
sapesse fare entrambe le cose, e probabilmente piuttosto bene.
Ma Willard, in quel suo strano modo, era un tipo gentile. Persino
intelligente, anche se privo di, per così dire, un’educazione classica.
Fisicamente, aveva tre anni più di noi, e in quanto a esperienza ne
aveva circa dieci di più.
Era uno dei motivi per cui ci piaceva stargli fra i piedi: ci lasciava
intravedere un mondo che normalmente non vedevamo. Non che
volessimo vivere in quel mondo, però ci interessava investigarlo.
E penso che noi piacessimo a Willard per il motivo opposto.
Sapevamo parlare di qualcosa che non era semplicemente la birra,
le donne, e la ditta dove lui lavorava tutta la settimana e i pomeriggi
del sabato, a fabbricare articoli da giardino in alluminio.
Nessuno di noi era costretto a lavorare. I nostri genitori ci
mantenevano, ed eravamo tutti quanti carne da università. Avevamo
sogni, e una buona possibilità di vederli avverare, e secondo me
Willard voleva che un po’ di quella speranza gli restasse attaccata
addosso.
Non sapevamo molto di lui. Correva voce che suo padre non
avesse trovato affatto somigliante il figlio, e che uno stregone della
Louisiana gli avesse detto che sul ragazzo pesava una maledizione,
e siccome la madre di Willard, Marjory, si occupava di strane cose
come la fede in antichi dèi e il voodoo e affini, l’uomo era diventato
ancora più sospettoso. La fine della storia era che il padre aveva
tagliato la corda prima che il bambino si mettesse a zampettare. In
città, giusto per sport, i battisti si divertivano a coprire d’insulti Willard
e la madre e, a dire il vero, sua madre non era un granché. Più tardi,
si era messa con un uomo che aveva la schiena scassata e per
questo riceveva un assegno regolare, e quando quello se n’era
andato, lei si era messa col proprietario di una salute precaria e di
una pensione del governo.
Era stato l’inizio di uno schema fisso: uomini con la schiena
scassata e un assegno regolare, così Marjory poteva permettersi le
sigarette, e Willard i pannolini. Ma quando Willard aveva compiuto
sedici anni, i regali di compleanno erano stati l’addio e la strada, un
posto dove comunque trascorreva già parecchio tempo. Marjory se
n’era andata chissà dove (probabilmente in una nuova città piena di
schiene rotte e di assegni del governo) e Willard aveva fatto del suo
meglio. Aveva piantato la scuola appena possibile, si era trovato
lavoretti qua e là; il migliore era stato quello di proiezionista in un
cinematografo. Compiuti i diciotto anni, era andato a lavorare nella
ditta che produceva sedie di alluminio.
Mi era parso ovvio, nel breve periodo della nostra conoscenza,
che Willard fosse affamato di qualcosa d’altro, qualcosa di più
sostanzioso, qualcosa che lo rendesse rispettabile agli occhi di chi
viveva nelle zone residenziali della città, anche se dubito che fosse
disposto ad ammetterlo, nemmeno con se stesso.
Ma per tornare a bomba, quel sabato mattina di cui vi sto
parlando entrammo nella sala da biliardo, ed ecco là Willard nella
sua posa più familiare: la stecca in mano, chino sul tavolo a scrutare
una palla.
Il suo avversario era un tizio che avevamo visto un paio di volte
ma col quale evitavamo di fare conversazione. Si chiamava Orso, e
non c’era bisogno di domandarsi perché gli avessero affibbiato quel
nome. Era alto un metro e novanta, brutto come la peste; aveva
capelli rosso-castani e una barba che, per grazia di Dio, gli divorava
quasi l’intera faccia. Di chiaramente visibile c’erano due occhi
azzurri, cattivi, e un naso che serviva da garage per inquietanti peli,
spessi quanto bastava per essere usati come corde di pianoforte. La
stessa inquietante materia annidata nel naso gli copriva le braccia e
usciva a riccioli dal collo della sua T-shirt, confondendosi con la
barba. Ciò che si poteva vedere delle sue labbra mi ricordava i vermi
di gomma usati come esche dai pescatori, e non mi avrebbe
sorpreso vederne sporgere ami di lucido argento, o scoprire che
tutto quanto il corpo di Orso era fatto di carne putrefatta, di fil di
ferro, e del contenuto di un cestino da pescatore e di qualche lattina
di varia natura.
Il juke-box suonava un pezzo di rock’n’roll (una rarità per Dan,
visto che lì di solito andavano forte il country e il western), e Randy
andò subito a chinarsi sul juke-box. Non solo perché gli piaceva la
musica, ma anche perché così si trovava più vicino alla porta.
Essendo nero, Randy si sentiva un tantino nervosetto ad
aggirarsi in una sala da biliardo frequentata da gente col collo rosso.
Anche se stava con Bob, che portava un cappello da cowboy
decorato di stuzzicadenti, aveva l’aria del giovanotto di mondo, e
portava stivali di pelle di serpente. E con me, Mister Ragazzo Medio
Perfettamente Adatto A Ogni Ambiente.
Non che Randy fosse l’unico nero a frequentare il locale (più o
meno, però, lo era). Il fatto è che era l’unico cliente di colore magro
come uno scheletro, alto un metro e sessanta, dotato di occhiali con
lenti spesse così e di un complesso di inferiorità. E, cosa più
importante, il mattino di cui vi sto raccontando era l’unico nero
presente.
Suppongo che se Bob e io avessimo realmente riflettuto su
quello che lo costringevamo a subire per il semplice fatto di essere
un membro della nostra “gang”, probabilmente non saremmo mai
entrati da Dan.
Il
che non vuol dire che Bob e io non fossimo nervosi. Lo
eravamo. Ci sentivamo due pivellini, a confronto di quei tizi. Ma
c’erano anche le attrattive di cui vi ho parlato, e poi c’era la nostra
prorompente maturità virile che stavamo cercando di affrontare, che
tentavamo di definire.
Quando Willard rialzò la testa dopo il tiro, ci salutò con un cenno.
Noi rispondemmo con altri cenni, trovammo dei posti dove
appoggiarci e restare a guardare.
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