La moglie del pastore – Elizabeth von Arnim

SINTESI DEL LIBRO:
Al suo corpo affrancato dal dolore parve, quel pomeriggio d’aprile,
che tutte le violaciocche del mondo si fossero ammassate
all’imbocco di Regent Street, affinché lei potesse camminare
immersa nel loro profumo.
Quella ragazza dalla figura esile e dagli abiti grigio topo, che
scivolava in direzione sud provenendo da Harley Street, si trovava in
uno stato di esaltazione, poiché si era appena fatta estrarre un
dente. Dopo settimane di miserabile indifferenza la sua gamma di
reazioni tornava nuovamente a palpitare, e ora riassaporava il gusto
della vita, il suo aroma pungente e l’allegria che le comunicavano il
trambusto della città e quei passanti frettolosi che la superavano. E
la bellezza di tutto ciò, l’incredibile bellezza, pensò, combattendo il
desiderio di indugiare nel bel mezzo del traffico per concedersi un
appagante attimo di osservazione: la meraviglia del cielo oltre i tetti
delle case, la delicatezza della foschia che aleggiava laggiù, passata
la curva della strada, l’incanto conferito dalle luci che iniziavano a
sfolgorare nelle vetrine. Senza dubbio, la tavolozza dei colori di
Londra era cosa sublime. Mentre sfumava nel tramonto, quel
pomeriggio sembrava di madreperla, ricco di sfumature pallide e
preziose, ornate da leggere ombre azzurrastre. Per quanto
riguardava il profumo, poi, si chiese se persino in paradiso esistesse
fragranza più soave; e se sì, non doveva certo essere un odore
altrettanto interessante.
«E in ogni caso», si disse, sollevando per un attimo il viso in un
gesto d’apprezzamento, «non altrettanto vivo».
Di sicuro, lei stessa non si era mai sentita così viva. Le pareva di
essere pervasa da un’onda di elettricità e non si sarebbe affatto
stupita se alcune scintille avessero iniziato a crepitare oltre la punta
dei suoi guanti di sobria fattura. Non solo si era improvvisamente e
incredibilmente sgravata da un dolore acuto, ma per la prima volta
nei ventidue anni che costituivano la sua esistenza si ritrovava sola.
Già questo semplice fatto, senza considerare la vicenda del dente,
sarebbe stato sufficiente a far vibrare di gioia una figlia deferente e
volonterosa, nonché indefessa lavoratrice. Si sarebbe sentita
percorrere da un fremito anche se le si fosse presentata la gloriosa
opportunità di un’intera giornata tutta per sé semplicemente
all’interno delle pareti grigie che circondavano il giardino a casa; ma
l’essere libera e senza alcun compito da svolgere, lontana dagli altri,
cioè dai componenti della sua famiglia, impossibilitati per forza di
cose a rivolgerle la parola, la loro immagine resa già così scolorita e
pallida dalla distanza! Eppure non li aveva lasciati più tardi di quella
stessa mattina; erano trascorse solo nove ore da quando suo padre,
bello come un arcangelo, con la chioma argentata e le gambe
inguainate nelle ghette, l’aveva salutata sulla soglia di casa con
offesa rassegnazione. «E non ritornare, Ingeborg», la sua voce
l’aveva raggiunta fin dentro la carrozza dove sedeva tentando di
tenere la testa ben ferma senza sobbalzare, «fino a che non ti sarai
completamente ristabilita. Anche se fosse necessaria una settimana.
Persino dieci giorni. Fatteli sistemare tutti».
La causa di tale evento traeva origine dal crollo di Ingeborg che,
ridotta a un groviglio di silenzioso e agonizzante dolore, aveva
destabilizzato l’ordinato ménage casalingo. La sua famiglia l’aveva
sopportato per una settimana con la più inappuntabile amabilità e
nemmeno uno sguardo di riprovazione. Poi era stata mandata dal
dentista di Redchester, che pur avendo fornito fino a quel momento
prestazioni di livello sufficiente, l’aveva torturata con otturazioni
provvisorie, trasformando un malessere costante e omogeneo in
convulsioni e spasmi. Infine, incapace di resistere a una tentazione
che l’autocontrollo avrebbe fortemente mitigato, la famiglia
incominciò a trovare inadeguati quei precetti del comportamento
cristiano che esortavano a sopportare in silenzio mentre lei si
lasciava trascinare sempre più in basso, nei gorghi profondi della
disperazione. Gli ordini del vescovo venivano impartiti invano. Ben
tre volte dovette recarsi alla stazione senza essere accompagnato e
ritornare senza che vi fosse nessuno ad attenderlo. I bottoni, dato
che non venivano rinforzati in tempo, saltavano via dalle ghette, e di
solito accadeva in posti remoti come i vagoni del treno. La
corrispondenza rimaneva inevasa, anche quella più urgente.
Appuntamenti di vitale importanza, senza nessuno che si
premurasse di ricordarglieli, venivano disattesi. Infine divenne
chiaro, quando sembrava che a lei non importasse più nulla
nemmeno di rispondere se interpellata o di muoversi se convocata
che quell’apatia e quella fuga strisciante verso un nascondiglio non li
si poteva sopportare oltre. Contrariamente a tutte le tradizioni e ai
principi vigenti in famiglia, essi lasciarono libera una giovane figlia
ancora nubile. Con offesa riluttanza la mandarono a Londra da una
celebrità in fatto di cure dentali, dicendosi che dopotutto non era
come se stesse andando in quella città semplicemente per divertirsi.
«E chiedi a tua zia di scusarci se la cogliamo così, alla sprovvista»,
le ingiunsero.
La zia, una donna dal carattere serio e tenace, era impegnata in
un ciclo di incontri politici al nord; all’uopo era partita quella stessa
mattina lasciando una lettera e la sua casa a disposizione di
Ingeborg per tutto il periodo in cui la sua presenza sarebbe stata
necessaria agli interventi del dentista. Ma il dentista, essendo il
migliore che il denaro potesse procurare, ebbe a malapena
necessità della presenza di Ingeborg. Si avventò senza indugio e
con precisione sul dente malato e lo estrasse. Non vi furono
otturazioni, ritardi o dolore, e nessuna zia. Mai vita fu riscattata in
modo più sublime. Ingeborg si allontanò libera lungo Harley Street
con dieci sterline in tasca. Per la rimanente parte di quella giornata e
per un’ora o due l’indomani prima di avviarsi verso la stazione di
Paddington, e di lì a casa, il mondo era a sua disposizione.
«Beh, nulla può impedirmi di andare ovunque ne abbia voglia,
questa sera», pensò fermandosi come folgorata dal pensiero
dell’assoluta libertà di quella situazione. «Potrei cenare in un locale
davvero elegante, come credo capiti a tutti quei personaggi dei libri
che non mi è consentito leggere, e poi andare a teatro: nessuno me
lo impedirebbe. Potrei persino andare a un caffè-concerto, se lo
desiderassi, e ancora nessuno potrebbe vietarmelo!»
Immagini audaci che le suscitarono il riso – non rideva da intere
settimane – sfrecciavano dentro e fuori la sua mente vorticante. Si
vide, vestita nel suo abito grigio topo, in locali colmi di marmi e
stucchi dorati ove riduceva i camerieri al rispetto e alla sottomissione
mostrando loro le sue dieci sterline. Intessé sinistre trame di possibili
atti arditi, sorridendo alla sua immagine riflessa nelle vetrine, al pari
di una teca ammantata di sobrietà e irreprensibilità che custodisse
immagini infuocate. Avrebbe potuto noleggiare una macchina: una
semplice telefonata e nel giro di cinque minuti sarebbe potuta
correre via nel crepuscolo verso Richmond Park o Windsor. Non era
mai stata a Richmond Park né a Windsor; non era mai stata da
nessuna parte ma era certa che là avrebbe visto i pipistrelli volare, le
stelle, l’acqua, la lieve oscurità creata dagli alberi e sentito l’odore di
terra bagnata. Avrebbe potuto ordinare all’autista di gironzolare un
po’ per quei luoghi lentamente, in modo tale da poter assorbire ogni
cosa, per poi tornare in città e andare a cena in qualche bel posto
come il Ritz, pensò, di cui aveva letto qualche resoconto in fretta e
furia, tra un’apparizione e l’altra del vescovo, sulle colonne più
intriganti del Times – giusto per spassarsela un po’. Oppure avrebbe
potuto andare prima a cena; sì, prima la cena, al Claridge. Anzi no,
non al Claridge; vi risiedeva un’altra zia, sorella di sua madre, ricca e
potente, ed era sempre meglio evitare di incrociare zie che fossero
ricche e potenti. La cena al Thackeray Hotel, forse. Lì abitavano i
parenti del padre, signori di bell’aspetto che un tempo erano curati e,
prima ancora, bambini rubicondi e bene educati. Aveva sentito dire
che si trovava vicino al British Museum. Il nome e la collocazione
suggerivano un’idea di sontuosità e nobiltà ancora più fastose del
Ritz. Sì, avrebbe cenato al Thackeray Hotel e tutto sarebbe stato
splendido.
In quel frangente, avvicinandosi a una vetrina dove era esposto
cibo in gran quantità , si rese conto con meraviglia di sentirsi
affamata per la prima volta da settimane; così affamata che il
desiderio di pranzi o cene future scomparve: bramava qualcosa da
mangiare subito. Entrò nella Bottega del Pane Piuma e sorbì
un’immensa tazza di cioccolata che ebbe l’effetto di dissolvere tutte
le rutilanti visioni del Ritz e del Thackeray Hotel (e sentendo quanto
quella bevanda fosse legittima e appropriata per la figlia di un
vescovo senza chaperon ne ordinò la porzione più grande, che
costava quattro pence).
Erano le sei quando, incredibilmente ristorata, emerse da quello
strano posto dove anziani allampanati dagli occhi stanchi, chini su
tavolini di marmo gelidi, senza tovaglia, trangugiavano uova in
camicia, e si incamminò lungo Regent Street. Si sentiva stranamente
determinata. Non intendeva più andare al Ritz. Anzi, l’idea di cenare
in
qualsivoglia ristorante, ora che la cioccolata l’appesantiva
internamente, quasi come un indumento – un indumento invernale,
che le ricordava certi tipi di pelliccia – le dava il voltastomaco. Si
sentiva ancora intraprendente, ma anche un po’ intorpidita. Adesso
desiderava stare all’aria aperta e concedersi un po’ di moto; il
fascino del calore e dello scintillio di un caffè-concerto non
esercitava più alcun richiamo su di lei. Quella bevanda densa
sprigionava un gusto che sentiva essere inconciliabile con un certo
genere di locali, una proprietà pienamente appagante che proveniva
dalla mancanza di qualsiasi adulterazione, dall’estrema purezza, una
qualità che le ricordava d’essere la figlia di un vescovo.
Allontanandosi pensosa dalla Bottega del Pane Piuma si rammentò
d’avere una madre invalida costretta su un divano, un’unica sorella
dalla bellezza commovente e una classe di ragazzi, un tempo
indisciplinati ma ora rispettosi; in altre parole, aveva una posizione
da mantenere. Si sentiva ancora felice, ma di una felicità bonaria; e
probabilmente sarebbe ritornata alla casa della zia in Bedford
Square in quello stato d’animo fervido e rinfrancato ben disposta a
una serata in compagnia di un libro per poi coricarsi presto, se la sua
attenzione non fosse stata richiamata da un cartellone esposto fuori
da un luogo simile a un ufficio, con l’immagine di acque e monti e
recante la scritta a lettere cubitali:
UNA SETTIMANA NELL’INCANTEVOLE LUCERNA
SETTE GIORNI PER SETTE GHINEE
CHI DESIDERI ADERIRE AL PRIMO VIAGGIO IN PARTENZA È PREGATO DI
RIVOLGERSI ALL’INTERNO
La nonna materna di Ingeborg era una svedese, una creatura di
estrema tenacia e abilità sugli sci. Era una donna giovane, quando
fu avvicinata di sorpresa da quel turista inglese dall’aria slavata,
colui che risultò poi essere il nonno di Ingeborg, inebriato dalle
generose letture e meditazioni, dal profumo di quelle immense
foreste, nonché dalle fragole di bosco con panna acida. Sino al
giorno in cui per ragioni inspiegabili si era concessa in moglie a
quello straniero smilzo, era vissuta in mezzo a elementi naturali di
grande bellezza: distese d’acqua, montagne imponenti, venti
impetuosi, e una vasta solitudine; e Ingeborg, che non era mai stata
al di fuori dell’Inghilterra e aveva trascorso anni e anni nel tranquillo
e sentimentale ovest, vedendo l’immagine di quel grande lago
sovrastato dalla volta celeste nella vetrina di Regent Street, sentì
una rapida stretta al cuore.
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