Caduti fuori dal tempo – David Grossman

SINTESI DEL LIBRO:
Eravamo in tre: Rami, il piú forte della classe, Amnon, che era
coraggioso come un aviatore giapponese e sapeva muovere le
orecchie, e io. No, non andava.
Eravamo in sette. Sette ragazzi senza paura, investigatori brillanti
e dallo sguardo acuto. Con noi, naturalmente, c’era anche un cane
(e come avrebbe potuto essere altrimenti?), un grosso cane
intelligente, di quelli che vedono la pistola al momento giusto e
ammiccano senza farsi scoprire. Con lui eravamo imbattibili,
eravamo…
No.
Non eravamo in tre e neanche in sette, e di un cane neanche a
parlarne. Ero da solo. Solo io. Se ci fosse stato qualcuno forse mi
sarei sentito piú al sicuro, là sotto il letto, nella casa di riposo del
quartiere Beit ha-Kerem, mentre me ne stavo sdraiato aspettando il
terribile bullo della facoltà di medicina di Heidelberg, in Germania.
Forse… se almeno ci fosse stato qualcuno. Non chiedevo molto,
solo una persona che sapesse cavarsela nelle situazioni difficili e
avesse esperienza di investigazioni. Avrebbe anche dovuto avere
una pistola e magari una lente d’ingrandimento, per trovare le
impronte digitali sul corpo.
Ma, siccome avevo molta paura che quel corpo sarebbe stato il
mio, poiché gli sono molto affezionato mi imposi di non pensare a
faccende cosí tristi e mi concentrai sulla striscia di luce che filtrava
da sotto la porta.
Perché, come ho già detto, ero disteso sotto il letto. Oltre alla
parte inferiore della porta riuscivo a vedere il tappeto colorato, la
valigia beige legata con due cinghie di stoffa e le gambe magre del
signor Rosenthal, con le sue solite scarpe da ginnastica. Ma forse
dovrei dare qualche spiegazione. Non si può proprio far cominciare
una storia sotto il letto, è sconveniente e c’è anche un sacco di
polvere.
Quando accaddero questi fatti avevo dodici anni. Oggi ne ho
ventotto e ancora ricordo i battiti affrettati del mio cuore, quando
sentii i passi del bullo di Heidelberg che si avvicinavano. Ho già detto
che ero solo, almeno sotto il letto. Sopra il letto sedeva il signor
Rosenthal, Heinrich Rosenthal, di settant’anni, piccolo di statura e
con una gran chioma di capelli bianchi; ma sotto il letto ero proprio
solo. Ricordo che in quei momenti di solitudine e di attesa riuscii a
pensare che forse mia madre aveva ragione: non era bene che io
non avessi amici e che stessi sempre da solo, o con gente strana
come Rosenthal. I miei genitori si preoccupavano un po’ del fatto
che non frequentassi né gli scout né un gruppo di coetanei, e che
non partecipassi quasi mai alle feste di classe. A me dispiaceva che
si preoccupassero, perché con me stesso mi trovavo piuttosto bene.
Anche i miei compagni avevano quasi smesso di insistere per farmi
partecipare a quello che organizzavano, forse perché si erano
stancati o forse perché non importava che ci fossi o no. In ogni
modo, come ho già detto, me la cavavo bene; ma la sera, quando
papà veniva nella mia stanza, si sedeva sul mio letto e mi guardava
senza dire niente, era difficile, forse ancora piú difficile delle liti
furibonde con mia madre, che urlava e diceva che mi comportavo
come un vecchio e non come un ragazzo di dodici anni.
Ma mia madre non conosceva il signor Rosenthal. Sulla sua carta
d’identità c’era scritto che era nato nel 1896, ma aveva l’energia e la
vitalità di un ventenne e sosteneva che la vita vera inizia a
settant’anni.
Avevo conosciuto Rosenthal all’inizio dell’anno scolastico. La
nostra insegnante ci aveva divisi in “gruppi di volontariato”, e tra le
varie attività c’era anche quella di aiutare un anziano e diventare suo
amico. Quando mia madre aveva saputo che tra le tante proposte
avevo scelto proprio di “adottare” un anziano e di andarlo a trovare
due volte alla settimana, si era limitata a dire: «Eh già.» Voi che
ancora non la conoscete, dovete sapere che quelle due parole erano
l’abbreviazione della frase: «Eh già, c’era da aspettarselo. Invece di
trovarsi degli amici della sua età, invece di giocare a calcio e fare
sport, invece di lasciare per un po’ i suoi libri e il suo
deprimentissimo coniglio… invece di tutto questo lui si trova un
amico settantenne: e sono sicura che l’ha fatto solo per farmi
arrabbiare.» Ecco il significato completo, senza abbreviazioni,
dell’“Eh già” di mia madre, e per fortuna si fa molto piú in fretta a dire
“Eh già” che a fare un lungo discorso. Ma non aveva ottenuto nulla,
e io mi ero unito al gruppo composto da altri tre ragazzi che
sarebbero andati all’ospizio, detto anche “casa di riposo” e situato
nel quartiere Beit ha-Kerem di Gerusalemme. E a questo punto
vorrei fare un’osservazione.
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