Il desiderio di essere come tutti- Francesco Piccolo

SINTESI DEL LIBRO:
LA VITA PURA: IO E BERLINGUER
Sono nato in un giorno di inizio estate del 1973, a nove anni.
Fino a quel momento la mia vita, e tutti i fatti che accadevano nel
mondo, erano due entità separate, che non potevano incontrarsi in
nessun modo. Me ne stavo nella mia casa, nel mio cortile, nella mia
città; con i miei genitori, i miei fratelli, i compagni di scuola, i parenti
e gli amici - e in un altro pianeta accadevano i fatti che guardavo in
televisione. Ogni tanto i grandi ne parlavano, del mondo e dell'Italia
in particolare; quindi c'era interesse verso quello che accadeva al di
fuori della nostra vita. Ma noi tutti, in ogni caso, non c'entravamo
niente. E io, ancora meno.
Era appena finita la scuola. Massimo, il mio compagno di banco,
mi invitava il pomeriggio a giocare da lui. Era molto ricco, aveva una
villa gigantesca a Briano. Aveva appena conosciuto un ragazzino del
paese, basso, con tante lentiggini e pochi capelli; non sapeva stare
fermo, parlava soltanto in dialetto, e ci sembrava che sapesse tutto di
ogni cosa come se fosse un adulto dentro il corpo di un ragazzino.
Noi stavamo zitti, lo ascoltavamo e poi facevamo quello che faceva
lui. Disse che ci avrebbe portato in un posto segreto, se avevamo il
coraggio. Noi dicemmo subito di si, anche se avevamo paura. Ci
vedemmo il giorno dopo, era tardi, ma il sole non calava mai, e il
ragazzino con le lentiggini ci disse di seguirlo. Percorremmo un
bosco, lui sapeva benissimo come muoversi, dove andare. L'aveva già
fatto tante volte, disse. E disse anche che non avremmo dovuto
parlarne con nessuno. Noi giurammo, senza fare domande.
Arrivammo davanti a un muro. Abbastanza alto, ma non troppo
alto. Ancora un po' diceva, e ci faceva strada. Camminavamo
sfiorando il muro con la spalla. Poi arrivammo in un punto e lui
disse: qui. Mise il piede in un piccolo buco che sapeva, si spinse in
alto, si aggrappò al bordo e si tirò su. Fate come me, disse. E saltò
dall'altra parte, sparendo. Massimo fece esattamente lo stesso.
Toccava a me, adesso. Di là, Massimo diceva: dai, salta. Di qua,
avevo paura di non farcela. Mi aggrappai al muro, misi il piede
cercando di trovare un punto che potesse reggermi, mi tirai su con
forza, e con molta più fatica di quanto avessi visto fare agli altri due,
schiacciando tutto il torace contro il bordo, mi issai sul muro. E saltai
giù. Non c'era più nessuno ad aspettarmi. Ero sempre in mezzo agli
alberi, ma dall'altra parte del muro, e la luce arrivava forte: gli alberi,
mi resi conto, erano pochi. Subito oltre vidi i due, fermi, che si
guardavano intorno.
Allora venni fuori alla luce anche io.
Certo, lo avevo capito subito che quel muro era il muro della
Reggia. Tutti lo sapevamo, a Caserta, che cominciava dal centro della
città e saliva sulle colline. Ma non avevo mai calcolato il perimetro
dell'interno con le misure dall'esterno. Cioè, quando il ragazzo aveva
detto: qui - non potevo rendermi conto di dove ci trovavamo.
Quindi, restai senza fiato.
Eravamo in cima, appena sotto la cascata, il punto che chiunque
desiderava raggiungere quando entrava nella Reggia. Avanzai
lentamente, con una mano che sfiorava l'acqua oltre il bordo della
grande fontana, attirato dalla statua di una donna seminuda, coperta
da un panno svolazzante, poggiato sulle parti che non bisognava
vedere.
Intorno a lei c'erano varie altre donne piuttosto disperate, anche
loro seminude. Dalla parte opposta c'era un cervo attorniato dai cani,
che sembravano malintenzionati. Del cervo mi importava poco, della
donna molto di più.
La cosa davvero incredibile, però, è che non si vedeva nessun
altro. La Reggia aveva chiuso, erano andati tutti via, e il ragazzino
con le lentiggini addirittura sosteneva che in questo momento, qui
dentro, in tutto il parco, i boschi, il giardino inglese e gli
appartamenti, c'eravamo solo noi tre. Ma a lui questa cosa non
sembrava eccezionale, la diceva soltanto per rassicurarci riguardo al
frigorifero.
Il sole era tramontato da un po', la sera scendeva molto lenta ed
era ancora giorno, quel giorno appena luminoso, bellissimo.
Massimo e il ragazzo con le lentiggini erano andati dritti dove quello
ci aveva portati: in un angolo c'era un frigorifero enorme, con una
catena e un lucchetto che il nostro amico aveva imparato ad aprire
con facilità. E dentro c'erano cornetti algida, coca cola, aranciate,
acqua - qualsiasi cosa.
C'era quel frigorifero, era questo il segreto che non dovevamo
rivelare. E c'era la Reggia completamente vuota, ma non eravamo
venuti per la Reggia. Se gli altri due stavano zitti - quando stavano
zitti, in una pausa dall'eccitazione - si percepiva con chiarezza il
rumore lento, lieve, dell'acqua della cascata, che era una cascata
morbida. Un rumore che non avevo mai sentito così nitido. Le statue
della donna e delle amiche, del cervo e dei cani, erano lì, più ferme e
più mute, sole. Tutte le volte che ero stato quassù - tante, soprattutto
la domenica, o quando veniva qualche parente o un amico da fuori,
eravamo arrivati fino a qui, che era il termine delle visite, il punto più
alto (sulle rocce della cascata non si poteva salire), il luogo più bello
della Reggia - c'era sempre una quantità di gente che si accalcava sul
bordo della vasca, indicava il cervo e raccontava che era stato
trasformato in cervo, e perché la donna si copriva pudica. C'erano
bambini che mettevano le mani nell'acqua (l'avevo fatto anche io
adesso), le carrozze con i cavalli, il bus che arrivava e scaricava altri
visitatori poi ripartiva.
Invece adesso, qui, nella Reggia, non c'era davvero nessun altro.
Mi posizionai con una bottiglia di coca cola fredda al centro dello
spiazzo, seduto sul bordo della fontana, e diedi le spalle alla donna e
al cervo. Massimo e l'altro facevano casini con frigorifero e gelati,
sparivano tra gli alberi; erano eccitati, tornavano, correvano e
infilavano di nuovo la testa nel frigorifero. E poi dopo aver preso
quanta più roba potevano, dissero: andiamo. E io dissi si. Con la coda
dell'occhio aspettai che saltassero dall'altra parte, mentre Massimo
diceva: vieni, dai.
Non è che non avessi paura, avevo paura eccome di restare da
solo, anche soltanto per un attimo. Ma la verità è che desideravo
farlo, e lo desideravo tanto che pensavo meno alla paura: restare qui
da solo, nella Reggia, forse da solo in tutta la Reggia, anche soltanto
per trenta secondi. Non avevo nessuna idea del perché volessi farlo,
ma sentivo con precisione che lo desideravo.
Loro scavalcarono, non immaginavano che non li stessi seguendo,
perciò non protestarono, forse cominciarono ad andare. E io rimasi
qui, spalle alla fontana e di fronte a me la lunghissima distesa del
parco, di tutte le vasche, la Reggia in fondo e gli alberi che
delimitavano i boschi sui lati.
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