Il dono delle lacrime- Giovanni Ricciardi

SINTESI DEL LIBRO:

 Il questore mi preavvisò la mattina stessa. «Problema delicato», aveva
detto. Mi avrebbero spiegato in loco: non si preoccupi, lei è un uomo capace,
intuitivo, quello che serve in situazioni come questa.
Una macchina mi avrebbe prelevato in capo a un’ora. Mi fu chiesto se
avevo bisogno di qualcosa. Ma il qualcosa era in vista di un compito di cui
non mi era stato anticipato nulla. Il vicecommissario dei Parioli mi avrebbe
sostituito per il tempo necessario allo svolgimento dell’incarico. E così, a
scanso di sorprese, chiesi di avere al mio fianco, come sempre, l’ispettore
Iannotta. Il questore non fece obiezioni. L’operazione comportò un lieve
ritardo, il tempo di avvisare il superiore di Mario, che non gradì, ma si arrese.
Attraversammo la città dai Parioli a San Pietro in perfetto silenzio,
osservando Roma attraverso i doppi vetri di una macchina oscurata, con gli
occhi muti di due pesci d’acquario, senza il sonoro vociare del mondo.
Via della Conciliazione accoglieva ancora il brulichio di una folla
composta che iniziava a disperdersi. Difficile dimenticare quella giornata:
l’elicottero che portava Ratzinger a Castel Gandolfo si era sollevato qualche
minuto prima, lasciando Roma senza papa.
Svoltammo a destra verso il portone di Sant’Anna. Da lì, senza controllare
credenziali o documenti, l’alabarda di una guardia svizzera ci indicò una
berlina scura, che ci inghiottì per qualche minuto lungo le strade vuote della
cittadella vaticana.
Fummo presto a un cortile, a un portone, a una sala d’attesa interminabile,
come se qualcuno ci avesse dimenticato. Poi un pretino azzimato venne a
farci strada, anche lui in perfetto silenzio, per lunghi corridoi coperti di
arazzi, lasciandoci di nuovo soli, in un’alta sala di pareti bianche, protese a
una volta affollata da putti alati che guardavano oltre, verso un cielo di
nuvole composte da cui spuntava, sorpresa in volo incerto, una colomba.
Quella fu la seconda anticamera, un’altra mezz’ora di perduto silenzio. A
sentire il pretino, qualcuno sarebbe venuto a riceverci dalla porta opposta a
quella per cui eravamo entrati. Due sedie, un tavolo, un televisore acceso su
Raiuno senza audio né telecomando, a rappresentare perfettamente una sede
vacante.
Stavolta i pesci nell’acquario erano i cronisti che parlavano dai loro punti
d’appoggio improvvisati. Sobri, compunti, commentavano pezzi di colore, la
piazza non gremita, l’elicottero che volteggiava accanto al cupolone, qualche
gabbiano smarrito lungo il Tevere, i volti col naso all’insù, primi piani
studiati a uno stupore malinconico, come se davvero un padre se ne fosse
andato, da un giorno all’altro, lasciando la famiglia a cavarsela da sé e
spiegando semplicemente che era stanco, non ce la faceva più. Che lo Spirito
Santo l’aveva eletto, questo sì, ma non vuol dire che poi uno si debba tenere
il posto a tutti i costi, come succede nel mondo reale.
Eppure Roma assorbe tutto, anche questo ineluttabile, strano andar del
tempo che le impone la Chiesa, e che la rende lenta, pigra, cinicamente
assorta, capace di stupirsi per un istante, ma con la vaga coscienza che da
qualche parte, tanto tempo fa, tutto questo presente è già accaduto.
Due
«Qua tocca parlà bene, ve’?», disse Iannotta sottovoce, per rompere
l’attesa.
«Bene come?».
«Bene italiano».
«E che ne sai che devi parlare?».
«Che ne so? Ce dovranno chiede quarcosa, je dovremo dì de sì o de no.
Mejo che lo tiene lei, er boccino. Io qua me sento a disagio».
«E quando mai lo tieni tu, il boccino? Tranquillo. Tu al massimo sei una
sponda, e io una palla da biliardo».
«E la stecca, chi la tiene?».
«È questo il vero mistero. Stasera non vorrei fare tardi per cena. Gloria
deve aver preparato qualcosa di speciale».
«Dopodomani».
«Come?».
«Dopodomani, non stasera. Se fidi».
Ma l’attesa si era fatta di nuovo lunga, e nessuno dei due portava orologi
al polso.
«Iannò, ma che ore saranno? Non hai un cellulare?».
«E lei?».
«Sì, cioè no, ho messo il cappotto buono e l’ho dimenticato nel giaccone.
Insomma, ce l’hai o no?».
«No, dotto’, cioè sì. Cioè, ce l’ho, ma è come se nun ce l’avessi. Me
l’hanno regalato ieri».
«E allora?».
«Embè… che je devo dì? Io pe’ ’na vita c’ho avuto er Nokia da venti euri,
e quello capivo. Solo che Clara so’ du’ anni che dice che la faccio vergognà
tutte le volte che lo tiro fori, che ’n ispettore de polizzia nun po’ annà in giro
a ’sto modo. E così ieri, che fra parentesi era er mio compleanno, s’è
presentata co’ ’sto coso».
«Il tuo compleanno? Perché non mi hai detto niente?».
«Perché nun so’ cose che se dicono».
«Fammi vedere questo aggeggio».
Mario tirò fuori il telefonino nuovo di zecca, ancora velato dalla pellicina
di plastica che proteggeva lo schermo piatto.
«Samsung Galaxy. Niente male. E non sei contento?».
«No. Nun ce capisco gnente. Appena l’ho acceso, l’ho usato pe’ ‘na
mezz’ora, che quando squillava manco rispondevo perché me pareva sempre
che era er telefono de ‘n altro. Faceva uno squillo da vergognasse, e io
figuramose se so’ capace de cambiallo. Poi, senza manco avvisà, la batteria è
finita de botto. Quando l’ho ricaricato, ho messo er PIN ma me diceva
«sbajato». «Sbajato». E ar terzo «sbajato» s’è azzittito e nun s’è più mosso de
pezza. Conclusione: sto così da ventiquattro ore, e adesso stamo propio ner
baratro der baratro. Stato estero, mura massicce, isolamento puro. Ecco qua.
Vede? L’accendo e poi non succede gnente. No. Aspetti. Mo ‘na cosa
succede. Me chiede er PUK. Ma che è ‘sto PUK?».
«Ssst. Non è il momento. Sento dei passi»

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