Lolita – Vladimir Nabokov

SINTESI DEL LIBRO:
Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città
per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. Si fece
svegliare ch'era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente.
Come ebbe finito, al lume di una lampada a petrolio si guardò nello specchio,
ma senza trovare la letizia che aveva sperato. Nella casa c'era un grande
silenzio, si udivano solo piccoli rumori da una stanza vicina; sua mamma
stava alzandosi per salutarlo. Era quello il giorno atteso da anni, il principio
della sua vera vita. Pensava alle giornate squallide all'Accademia militare, si
ricordò delle amare sere di studio quando sentiva fuori nelle vie passare la
gente libera e presumibilmente felice; delle sveglie invernali nei cameroni
gelati, dove ristagnava l'incubo delle punizioni. Ricordò la pena di contare i
giorni ad uno ad uno, che sembrava non finissero mai.
Adesso era finalmente ufficiale, non aveva più da consumarsi sui libri né da
tremare alla voce del sergente, eppure tutto questo era passato. Tutti quei
giorni, che gli erano sembrati odiosi, si erano oramai consumati per sempre,
formando mesi ed anni che non si sarebbero ripetuti mai. Sì, adesso egli era
ufficiale, avrebbe avuto soldi, le belle donne lo avrebbero forse guardato, ma
in fondo - si accorse Giovanni Drogo - il tempo migliore, la prima
giovinezza, era probabilmente finito. Così Drogo fissava lo specchio, vedeva
uno stentato sorriso sul proprio volto, che invano aveva cercato di amare. Che
cosa senza senso: perché non riusciva a sorridere con la doverosa
spensieratezza mentre salutava la madre? Perché non badava neppure alle sue
ultime raccomandazioni e arrivava soltanto a percepire il suono di quella
voce, così familiare ed umano? Perché girava per la camera con
inconcludente nervosismo, senza riuscire a trovare l'orologio, il frustino, il
berretto, che pure si trovavano al loro giusto posto? Non partiva certo per la
guerra! Decine di tenenti come lui, i suoi vecchi compagni, lasciavano a
quella stessa ora la casa paterna fra allegre risate, come se andassero a una
festa. Perché non gli uscivano dalla bocca, per la madre, che frasi generiche
vuote di senso invece che affettuose e tranquillanti parole? L'amarezza di
lasciare per la prima volta la vecchia casa, dove era nato alle speranze, i
timori che porta con sé ogni mutamento, la commozione di salutare la
mamma, gli riempivano sì l'animo, ma su tutto ciò gravava un insistente
pensiero, che non gli riusciva di identificare, come un vago presentimento di
cose fatali, quasi egli stesse per cominciare un viaggio senza ritorno.
L'amico Francesco Vescovi lo accompagnò a cavallo per il primo tratto di
strada. Lo scalpitio delle bestie risuonava nelle strade deserte. Albeggiava, la
città era ancora immersa nel sonno, qua e là agli ultimi piani qualche persiana
si apriva, comparivano facce stanche, apatici occhi fissavano per un momento
la nascita meravigliosa del sole.
I due amici non parlavano. Drogo pensava a come potesse essere la Fortezza
Bastiani, ma non riusciva a immaginarla. Non sapeva neppure esattamente
dove si trovasse, né quanta strada ci fosse da fare. Alcuni gli avevano detto
una giornata di cavallo, altri meno, nessuno di coloro a cui aveva chiesto c'era
in verità mai stato. Alle porte della città, Vescovi cominciò vivacemente a
parlare delle solite cose, come se Drogo andasse a una passeggiata. Poi, a un
certo punto:
"Vedi quel monte erboso? Sì, proprio quello. Vedi in cima una costruzione?"
diceva. "È già un pezzo della Fortezza, una ridotta avanzata. Ci sono passato
due anni fa, mi ricordo, con mio zio, per andare a caccia."
Erano oramai usciti dalla città. Cominciavano i campi di granturco, i prati, i
rossi boschi autunnali. Per la strada bianca, battuta dal sole, avanzavano i due
fianco a fianco. Giovanni e Francesco erano amici, vissuti insieme per lunghi
anni, con le stesse passioni, le stesse amicizie; si erano visti sempre ogni
giorno, poi Vescovi si era fatto grasso, Drogo invece era diventato ufficiale e
adesso sentiva come l'altro fosse oramai lontano. Tutta quella vita facile ed
elegante oramai non gli apparteneva più, cose gravi e sconosciute lo
attendevano. Il suo cavallo e quello di Francesco - gli pareva - avevano già un
passo diverso, uno scalpitare, il suo, meno leggero e vivace, come un fondo
di ansia e fatica, come se anche la bestia sentisse che la vita stava per
cambiare.
Erano giunti in cima a una salita. Drogo si voltò indietro a guardare la città
contro luce; fumi mattutini si alzavano dai tetti. Vide di lontano la propria
casa. Identificò la finestra della sua stanza. Probabilmente i vetri erano aperti,
le donne stavano mettendo in ordine. Avrebbero disfatto il letto, chiuso in un
armadio gli oggetti, poi sprangato le persiane. Per mesi e mesi nessuno ci
sarebbe entrato, tranne la paziente polvere e nei giorni di sole tenui strisce di
luce. Eccolo rinserrato nel buio, il piccolo mondo della sua fanciullezza. La
madre l'avrebbe conservato così affinché lui tornando ci si ritrovasse ancora,
perché lui potesse là dentro rimanere ragazzo, anche dopo la lunga assenza;
oh, certo lei si illudeva di poter conservare intatta una felicità per sempre
scomparsa, di trattenere la fuga del tempo, che riaprendo le porte e le finestre
al ritorno del figlio le cose sarebbero tornate come prima.
L'amico Vescovi qui lo salutò affettuosamente e Drogo continuò solo per la
strada, avvicinandosi alle montagne. Il sole era a picco quando giunse
all'imbocco della valle che conduceva alla Fortezza. A destra, in cima a un
monte, si vedeva la ridotta che il Vescovi gli aveva indicato. Non sembrava
che ci dovesse essere ancora molta strada. Ansioso di arrivare, Drogo, senza
fermarsi a mangiare, spinse il cavallo già stanco su per la strada che si faceva
ripida e incassata fra precipitosi costoni. Gli incontri erano sempre più rari. A
un carrettiere Giovanni domandò quanto tempo ci fosse per arrivare alla
Fortezza.
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