La fine dei vecchi tempi – Vladislav Vancura

SINTESI DEL LIBRO:
Dovendo descrivere la vita al castello di KratochvÃle, posso
iniziare alla maniera dei cronachisti e seguire ogni cosa a partire da
Adamo, oppure posso invece raccontare quello che mi viene in
testa, cosà a rampazzo. Ho deciso per la prima maniera.
Il castello di KratochvÃle fu edificato nel secolo XII da un certo
canestraio che, il giorno di san Matteo, stava dirigendosi al mercato
annuale nella città di Krumlov1. Detto canestraio aveva nome
Koketák. In ogni mano teneva dieci canestri e non poteva perciò
neanche togliersi il cappello davanti alle persone che incontrava. La
qual cosa gli arrecò fortuna. Proprio nel luogo in cui si erge oggi il
nostro castello, incontrò infatti l’abate della Corona d’oro. Il signor
abate procedeva in calesse. Koketák2 gli aveva fatto un inchino e
già aveva sulla punta della lingua un saluto cristiano ma, come si
chinò, due canestri gli caddero nel fango. A quel punto il canestraio
non ce la fece a trattenere una sconveniente maledizione. La cosa
non sfuggà all’abate, che si accigliò, scese dal calesse e, per dare
all’uomo una lezione che non potesse piú dimenticare, cominciò a
saltare sulla roba del canestraio, calpestandogli tutti quanti i canestri.
Nel farlo, si agitava tutto e muoveva le braccia, tanto che dal dito gli
cadde uno splendido anello. Il suo valore era folle. L’abate (essendo
lievemente allegrotto) non s’era accorto di nulla, ma il Koketák, un
furbo di tre cotte, si era fissato bene in mente il punto in cui l’anello
era caduto.
L’abate, terminato che ebbe il proprio insegnamento, disse al
canestraio di andarsene al diavolo. «Se t’incontro un’altra volta», gli
aveva detto, «e non riceverò da te un saluto cristiano, non mi limiterò
a saltare sulle tue proprietà , ma ti punirò con un’intensità cento volte
maggiore».
A sentir questo, il Koketák si era spaventato, ma ugualmente
ebbe il coraggio di domandare all’abate se avesse saltato davvero
solo sulle sue proprietà . L’abate confermò. «Monsignore», disse
allora il Koketák, «spero non abbiate l’abitudine di riprendere indietro
la parola data».
«Affatto», rispose l’abate accingendosi a risalire in vettura.
«Ebbene», ribatté a sua volta il Koketák, «se ho ben compreso,
Monsignore, voi mi avete appena adesso fatto dono di un bel luogo,
dal momento che, oltre ai miei canestri, con la vostra calzatura voi
avete coperto lo spazio di venticinque piedi di terreno a destra come
anche a sinistra».
Ciò udito, l’abate scoppiò in una sonora risata e fece davvero
dono a quel Koketák di un po’ di terreno. Lo fece con la mano
appoggiata alla nuca e pronunciando queste parole: «Te lo dono,
ragazzo, per il sollazzo», za kratochvÃli: cosà aveva detto, «che tu mi
hai or ora cagionato».
Da qui (come potete facilmente capire) deriva il nome del nostro
castello. Koketák lo costruà nello stile severo del Maestro di Třeboň.
(È qui doveroso far presente che non ci stiamo riferendo alla
KratochvÃle rinascimentale non lontano da Nechánice). Il denaro per
la costruzione lo aveva ricavato dalla vendita dell’anello dell’abate.
Poi il canestraio si era procurato una meravigliosa spada e, avendo
oramai tutto quanto legittimi il diritto di fare ciò che si vuole, dimostrò
all’abate tutta la propria riconoscenza con un bel colpo dritto al petto.
Ciò fatto, si appropriò dei beni del convento e li conservò fino alla
propria morte. Era stato lui a fondare la nobile dinastia dei Koketák.
Le donne di tale dinastia erano celebrate per i loro meravigliosi
polpacci, mentre gli uomini eccellevano sul campo di battaglia.
Nessuno di loro raggiunse però mai la gloria di Koketák l’Ultimo che,
dopo essersi appuntato la croce, aveva troncato d’un sol colpo tre
teste saracene. Per questo il suo nome venne cambiato in
l’Agnellino. Quell’uomo non ebbe figli e cadde presso Milano. Da qui
ha inizio a KratochvÃle il regno dei Puzzolotti. Dopo i Puzzolotti erano
venuti i Burbulani, dopo i Burbulani i Markvartici, dopo i Markvartici i
Vejřini, dopo i Vejřini i Kouřideři3, e cosà via discorrendo fino ad
arrivare all’illustre dinastia dei duchi Průkazský che regnarono a
KratochvÃle per un intero secolo fino al 1918. L’ultimo duca
rispondeva al nome di Marcel. Era il mio vecchio padrone, quello
presso il quale io, Bernard Spera, ho prestato servizio in biblioteca.
Quando venne raggiunta l’indipendenza nazionale ceca, il mio
padrone (benché non avesse nulla da temere) era fuggito in Tirolo.
KratochvÃle si trovò abbandonata a se stessa. Erano quelli tempi
alquanto agitati, e da ogni parte si mormorava che gli operai
gliel’avrebbero fatta pagare ai loro padroni. Disavvezzo a nuotare
contro corrente, mi trasferii allora nello studiolo del duca e, al posto
di Seneca, cominciai a leggere Marx. Da noi in cucina le ragazze
all’epoca cucivano le coccarde4, strillando alla maniera delle
parigine al mercato del pesce. In breve: castello o non castello, tutti
noi in Boemia desideravamo che le persone tirassero un bel sospiro
di sollievo e vivessero da esseri umani.
Mi chiedete come me l’immaginavo io tutto questo? Vi rispondo
subito. Adesso che il mio padrone se l’era data a gambe levate,
avevo desiderato con tutto il cuore di occupare il suo posto ed
essere duca. Non c’è niente di strano. Se chiedete a un alunno cosa
vuole diventare, lui senza pensarci su nemmeno un istante vi
risponde che vorrebbe essere un insegnante. È cosà che va il
mondo. Il sacrestano vuol essere parroco, il parroco vescovo, il
vescovo cardinale. Ciascuno ambisce a un gradino piú in alto e
ciascuno desidera rimanere nell’à mbito col quale si è giÃ
familiarizzato. Ci scommetto che, se un mulo potesse parlare, a una
simile domanda ribatterebbe: voglio essere mulattiere!
Sulla base di tale principio, chiunque a KratochvÃle si stava
preparando ad assumere il governo nelle proprie mani. Da tutto ciò
derivarono frizioni d’ogni tipo e disagi per la proprietà . Era quindi
tempo che il Parlamento nazionale nominasse per noi un reggente.
Fu scelto Josef Stoklasa.
Il detto Josef Stoklasa era ricco. Poteva comprarsi KratochvÃle per
una bella cifra, ma le nuove leggi non lo permettevano. Da qui erano
sorte ulteriori lungaggini. Alcuni avvocati si erano messi a scrivere in
Tirolo una lettera dopo l’altra, mentre altri avvocati, quelli del duca,
rispondevano prontamente in Boemia. Il signor Stoklasa se ne stava
seduto nel proprio studio fino a che gli reggevano le forze e cercava
una qualche via d’uscita. La cosa, però, s’ingarbugliava sempre piú.
Gli uffici gli facevano presente che alcuni boschi posti sui confini
sarebbero stati separati dall’intera proprietà e che alcuni poderi, che
già erano stati annessi, sarebbero stati concessi ai contadini. Non
c’era modo di evitarlo, il signor Stoklasa se n’era dispiaciuto ma gli
veniva l’acquolina in bocca pensando al nucleo fondamentale di
KratochvÃle, che rimaneva intatto. Aveva poi ripetuto la propria
richiesta con una pressanza e un’ostinazione tali che tutti noi
avevamo cominciato ad avere un po’ paura del nostro reggente. Fino
alla riacquistata indipendenza, nessuno da noi aveva mai sentito
nulla su di lui, ma da allora in poi il nome di Stoklasa aveva preso a
tornare sempre piú spesso alla ribalta. Venimmo a conoscenza dei
suoi meriti e lo accettammo come nostro padrone. Lo avevamo fatto
alquanto controvoglia, ma c’era forse molto da scegliere? Avevamo
tutti capito che prima o poi sarebbe riuscito a ottenere quello a cui il
suo cuore ambiva.
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