La falsaria – Barbara A. Shapiro

SINTESI DEL LIBRO:
Faccio un passo indietro e guardo i quadri. Sono undici, anche se ne
avrei a centinaia, forse migliaia. L’idea è mostrargli solo alcuni pezzi
dalla mia serie sulle finestre. Oppure no. Tiro fuori il cellulare dalla
tasca, controllo che ore sono. Posso ancora cambiare idea. Tolgo
Tower, un quadro iperrealista dei riflessi sulle pareti di vetro della
Hancock Tower, e lo sostituisco con Sidewalk, una veduta astratta di
Commonwealth avenue dal bovindo di un soggiorno. Poi li scambio
di nuovo.
Sono più di due anni che lavoro alla serie delle finestre e giro per
la città con il blocco degli schizzi e la Nikon. Vetrate di chiese,
finestre a specchio, e i bovindi che a Boston sono dappertutto.
Grandi, piccole, vecchie, rotte, con le cornici di legno o di metallo.
Finestre che guardano da dentro a fuori, e viceversa. Mi piacciono
soprattutto nel tardo pomeriggio, in inverno, prima che qualcuno,
dentro casa, si accorga che si sta facendo buio e chiuda le
tapparelle.
Appendo Sidewalk accanto a Tower. Ora ce ne sono una dozzina,
un bel numero tondo. Ma andrà bene? Troppi e ne sarà sopraffatto.
Troppo pochi e non apprezzerà la varietà dei soggetti e degli stili. È
così difficile scegliere. Una delle molte ragioni per cui le visite in
studio mi rendono tanto nervosa.
E comunque, perché questa visita? Per il mondo dell’arte sono un
paria; mi hanno soprannominata «The Great Pretender», la grande
millantatrice. Da quasi tre anni. E all’improvviso Aiden Markel, il
proprietario della famosa Markel G, sta per arrivare nel mio loft.
Aiden Markel, che solo qualche mese fa mi aveva notato a stento
quando mi ero fermata alla galleria per vedere una nuova mostra. E
adesso, all’improvviso, è tutto amichevole, mi fa un sacco di
complimenti, vuole vedere i miei ultimi lavori e lascia la sua elegante
galleria di Newbury street per venire nei quartieri bassi di SoWa e
valutare i miei quadri, come ha detto, «in situ».
Guardo, dall’altra parte della stanza, i due quadri appoggiati sui
cavalletti. Colazione dopo il bagno, una donna nuda che esce dalla
vasca per essere servita da una cameriera, un Degas della fine del
Diciannovesimo secolo; questa versione, però, l’ha dipinta Claire
Roth all’inizio del Ventunesimo. L’altro quadro è ancora a metà : Orto
e alberi in fiore, Primavera a Pontoise di Camille Pissarro, anche
questo à la Roth. La Reproductions.com mi paga per dipingerli, poi
vende i quadri online come «repliche perfette», la cui «provenienza
solo uno storico dell’arte potrebbe distinguere» a dieci volte il mio
compenso. Sono questi i miei veri ultimi lavori.
Torno a guardare le mie finestre, passeggio, stringo le palpebre,
passeggio un altro po’. Dovranno bastare. Butto una logora coperta
messicana sul vecchio materasso nell’angolo, raccolgo i piatti
sporchi sparsi per lo studio e li scarico nel lavandino. Penso di
lavarli, decido di non farlo. Se Aiden Markel mi vuole in situ, mi avrÃ
in situ. Riempio comunque una ciotola di anacardi e tiro fuori una
bottiglia di vino bianco – mai offrire vino rosso durante una visita a
uno studio – e un paio di bicchieri.
Vado nella parte anteriore dello studio e guardo fuori dalle finestre
su Harrison avenue. Lo stesso punto di vista di Loft. Passo un sacco
di tempo in quel punto, fingendo di lavorare al mio ultimo progetto,
ma più che altro sogno a occhi aperti, spio, rimando. Sono al quarto
piano, e ciascuna delle sei finestre che ho di fronte si estende da
mezzo metro sopra il pavimento a mezzo metro sotto il soffitto, alto
quasi cinque metri.
L’edificio un tempo era una fabbrica; di fazzoletti, mi ha detto un
vecchio del quartiere. I vecchi, tuttavia, non sono famosi per la loro
veridicità , e dunque magari erano cappelli o bretelle, o forse non era
nemmeno una fabbrica. Adesso è un dedalo di studi di artisti e
alcuni, per esempio io, nello studio ci vivono anche. È illegale,
ovviamente, ma a buon mercato.
il
Secondo i media, SoWa – la zona a sud di Washington street – è
nuovo quartiere alla moda di Boston, nella parte ancora più
meridionale di South End; la zona a nord di Washington, invece,
andava di moda circa dieci anni fa. Per me, comunque, e per tutti
quelli che ci passano del tempo, la sua storia è ancora tutta da
scrivere. Su una rete di magazzini, casermoni, un ostello per
senzatetto e alcuni campi da basket sta nascendo un quartiere di
ristoranti costosi, gallerie d’arte e palazzi residenziali immacolati e
protetti da guardie. Il ruggito della I-93 è così continuo che ci si fa
subito l’abitudine. Non vorrei vivere in nessun altro posto.
Per strada, Aiden Markel gira l’angolo da East Berkeley con il suo
passo distratto e aggraziato. Anche da mezzo isolato di distanza
vedo che indossa pantaloni su misura – molto probabilmente di lino– e una camicia che costerà forse cinquecento dollari. Ci sono quasi
trenta gradi in questo pomeriggio di fine estate e lui sembra appena
uscito dal suo appartamento di Back Bay in una fresca mattina di
settembre. Tira fuori il cellulare, guarda il mio palazzo e tocca lo
schermo. Il mio telefono squilla.
Non c’è l’ascensore, e nemmeno l’aria condizionata nei corridoi e
per le scale. Quando arriviamo al quarto piano Markel respira senza
affanno e i suoi abiti sono immacolati. È chiaro che va in palestra.
Per non dire che da quando gli ho aperto la porta non ha mai
smesso di parlare. Nessuno direbbe che negli ultimi anni ci siamo
parlati a stento.
«Ero dietro l’angolo, proprio l’altro giorno» dice Markel,
continuando il suo monologo. «Dedham e Harrison. Sono stato a
vedere il nuovo progetto di Pat Hirsi. Lo conosci, vero?»
Scuoto la testa.
«Adesso lavora con i ciottoli. Molto ingegnoso».
Apro la grande porta d’acciaio con entrambe le mani.
Markel oltrepassa la soglia, fa un bel respiro e chiude gli occhi.
«Non c’è niente come l’odore di un artista al lavoro». Tiene gli occhi
chiusi, e non è esattamente quello che voglio che faccia; dovrebbe
essere venuto per guardare i miei quadri, innamorarsi di loro e
organizzarmi una personale alla Markel G. Certo. Come no. Anche
se non so che cosa succederà , o perché sia venuto.
«Un bicchiere di vino?» domando.
Finalmente apre gli occhi e mi regala un lento, caldo sorriso. «Ti
unisci a me?»
Non posso fare a meno di ricambiare il sorriso. Non è una
bellezza classica, ha i lineamenti troppo marcati, ma c’è qualcosa
che mi attrae nel portamento, negli occhi grandi e un po’ incavati e
nella fossetta sul mento. Carisma, credo. Questo, e la storia che
abbiamo in comune.
«Certo». Prendo un mucchio di tele che non so come ho
dimenticato sul mio sgangherato divano e le appoggio contro un
tavolino ancora più malandato. A volte mi sento come la parodia di
me stessa: l’artista morta di fame che dorme su un materasso nello
studio per risparmiare sull’affitto. Eppure è così.
Markel non si muove. Mi guarda a lungo, poi sposta lo sguardo
sopra la mia spalla, con un’espressione malinconica. So che sta
pensando a Isaac. Forse dovrei dire qualcosa, ma non so che cosa.
Che mi dispiace? Che sono ancora turbata? Che anch’io ho perduto
un amico?
Verso il vino in due bicchieri da bibita mentre lui si accomoda sul
divano. Non è un compito facile, perché è pieno di bozzi e troppo
profondo per essere davvero comodo. Dovrei comprarne uno nuovo,
o almeno prenderlo di seconda mano, ma il padrone di casa ha
appena aumentato l’affitto e sono praticamente sul lastrico.
Mi siedo davanti a lui sulla sedia a dondolo e mi chino in avanti.
«Ho sentito che la mostra di Jocelyn Gamp è andata benissimo».
Beve un sorso di vino. «Merito dei suoi pezzi di metallo fuso. Ha
venduto tutto e ha avuto tre commissioni. Una donna stupefacente.
Un’artista incredibile. Il Met le ha chiesto di visitare il suo studio».
Mi piace come non si prenda alcun merito. «Ha venduto»
piuttosto che «ho venduto» o anche «abbiamo venduto».
Estremamente raro, di fronte all’egocentrismo sfrenato della maggior
parte dei mercanti d’arte e dei proprietari di gallerie.
«Non capita spesso che il New York Times parli di una mostra a
Boston» dico per adularlo.
«Sì, è stato un bel colpo» ammette. «Sono contento di vedere
che ti tieni ancora al corrente sul mondo dell’arte, mentre noi non ti
abbiamo proprio seguito».
Alzo lo sguardo, bruscamente. Che diavolo significa? Vedo che
nel suo sguardo c’è compassione, tuttavia; forse anche un leggero
senso di colpa.
«La settimana scorsa ho venduto Orange Nude di Isaac» dice.
Ah. Come tutti sanno, ho fatto io da modella per Orange Nude.
Anche se è un quadro astratto, è impossibile non riconoscere i miei
lunghi capelli rossi, la mia carnagione chiara, gli occhi marroni. Se
non avessi buttato per strada quel quadro quando ci siamo lasciati,
probabilmente avrei anch’io un appartamento a Back Bay, invece di
stare in affitto in una fabbrica dismessa a SoWa. A ogni modo, non
sono il tipo adatto per Back Bay. «Non dirmi quanto ci hai fatto».
«Te lo risparmio. La vendita però mi ha fatto pensare a te, a
quanto ingiustamente ti hanno trattato».
Faccio fatica a non mostrarmi sorpresa. Negli ultimi tre anni
nessuno, al di fuori di un paio di amici artisti e di mia madre – che
non ha mai veramente capito che cosa significasse tutto questo – ha
voluto guardare la situazione dal mio punto di vista.
«Allora ho deciso di venire a vedere quello che stai facendo»
continua. «Forse posso darti una mano».
Il mio cuore sobbalza e mi alzo di scatto. «Ho tirato fuori qualcosa
dalla mia ultima serie». Indico i quadri con un cenno. «Ovviamente,
finestre».
Markel si avvicina ai quadri. «Finestre» ripete, e guarda l’intera
dozzina di quadri da lontano, poi si avvicina a ciascuno di essi.
«Finestre cittadine, di Boston. Come tema sono vicine a Hopper,
ma più multidimensionali. Non solo il volto pubblico della solitudine,
ma chi siamo in più di una dimensione. Invisibili, dall’interno. Oppure
visti, ma inconsapevolmente. In mostra, dall’esterno, in posa o
portati a dimenticare. Separazioni. Riflessioni, rifrazioni».
«Luce» mormora. «Una luce meravigliosa».
«Anche questo. Senza luce niente può essere visto. E anche
così, c’è ancora tanto che resta inosservato». Le visite in studio mi
fanno parlare come un pomposo critico d’arte.
«La tua luce è incredibile. I valori tonali. Quasi come in Vermeer».
Indica Loft. «Sono colpito dalla differenza di valore nella luce dalla
finestra all’estrema sinistra fino a quelle a destra». Si avvicina
ancora. «Ognuna è leggermente diversa, eppure ognuna è una parte
luminosa di tutto l’insieme».
Sono anche contenta di quel particolare gioco di luce, ma
addirittura Vermeer, il maestro della luce...
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