La donna a metà – Cristina Stillitano

SINTESI DEL LIBRO:
Il due di gennaio è un giorno complicato.
Forse il più complicato di tutti.
Passata l’euforia del Capodanno, svaniti i propositi del primo, il
secondo giorno dell’anno arriva puntuale senza più coriandoli, ricchi
premi o cotillon. Puntuale con la sua banalità e il suo gelido
realismo.
Chi saremo nel corso del nuovo anno, ce lo dirà il due di gennaio.
E sarà una sentenza senza appello.
Certo un pensiero come questo non poteva chiedere alloggio nel
cervello del Cefalone. Ma quella sera, la sera del due gennaio del
1954, nella testa gli frullava una certa idea. Anzi, un certo velenoso
sospetto.
Quello di diventare il primo cornuto dell’anno nuovo.
Il sospetto, purtroppo, scavava sempre più pungente visto che la
sua donna continuava a ballare con un giovane che tracimava
muscoli da ogni parte del corpo.
Ballare. Una parola gentile in quella sera un po’ stravagante e
spensierata sul barcone del Ciriola.
Marisa più che altro ancheggiava. Dimenava il fondoschiena che
la gonna lunga e stretta gonfiava senza vergogna.
Il
giovane gli buttava di traverso un occhio e, appena poteva,
anche l’altro. Smanioso di solleticare con le mani quella generosa
prosperità che s’animava al ritmo scatenato del boogie-woogie.
Cefalone odiava il boogie-woogie. Glielo aveva ripetuto più volte al
vecchio Gambacorta tuttofare, che armeggiava attorno al
grammofono appollaiato sopra una pedana. Molto meglio la samba o
la beguine. Al limite, una rumba onesta e dignitosa che non faceva
male a nessuno. E non faceva scricchiolare le assi del ponte. Ma su
quella chiatta di festaioli scatenati nessuno voleva dargli retta.
“A Cefalò, ti sei incantato?”
Palledure s’era seduto accanto a lui con la faccia tosta che
regalava ghigni senza richiesta e sfottò senza lesinare.
“Palledù, vatti a fare un bicchierino di marsala.”
Quello ammiccò verso i ballerini.
“Caruccio l’amico nostro. Vedi come se la pomicia. Non è che
muscolino la strozza con quelle braccia a polipo gonfiate?”
“Palledù, fai aria, please.”
Lo sfottitore non aveva proprio voglia d’ascoltare.
“Lo sai come si dice? Se il diavolo ti incontra a Capodanno, ti porti
coda e corna tutto l’anno!”
Due giovinastri, che posavano ai lati del ponte col sorriso alla
Clark Gable, diedero di sghignazzo. Il fiumarolo li fulminò con una
girata d’occhio avvelenata.
“Palledù, attento a come scarichi la bocca.”
Quello, però, non era tipo da impressionarsi.
“Muscolino, lì, non è uno dei canottieri della Tevere Remo?”,
insistette.
Da buon fiumarolo, Cefalone conosceva tutto quello che si
muoveva sopra e sotto il Tevere. E aveva individuato a colpo
d’occhio il canottiere. Del resto la rivalità tra rematori e grezzi
fiumaroli era faccenda che correva da sempre tra natanti, circoli e
barconi che coronavano le sponde del fiume.
“Non lo so e mi scivola liscio” mentì, tirando dal pacchetto una
Nazionale e serrandola accesa tra le labbra.
Poche chiacchiere con quell’impiccione di Palledure.
Il boogie-woogie finalmente cessò. Sul barcone scese il silenzio,
interrotto dal cigolìo della struttura malandata e dallo scorrere
appena percettibile del fiume.
In quel breve attimo, prima che Gambacorta infilasse un nuovo
disco, un tonfo salì dalle assi del ponte.
Sordo, secco, improvviso.
Istintivamente Cefalone guardò il pavimento. Palledure sembrava
non essersi accorto di nulla e neppure Gambacorta. Del resto, pochi
avevano il suo orecchio per le voci del Tevere.
Non ci fece caso più di tanto. La pista reclamava la sua
attenzione. Quella sciamannata di Marisa, avvinghiata di nuovo a
muscolino canottiere, non sembrava ricordarsi che lui, e solo lui, era
il suo uomo. E ora la voce lamentosa di Flo Sandon’s invitava tutti a
stringersi in un lento.
Cefalone drizzò il suo metro e ottanta. Con un gesto brusco lanciò
nel fiume la cicca e si fece avanti sul ponte, scansando le coppie dei
ballerini.
“Vai, Cefalò, fallo nero”, gridò Palledure.
Arrivò accanto alla sua donna proprio mentre reclinava la testa
sulla spalla del canottiere.
“Che volemo fa’? Da brava, Marì, sganciati da questo pagliaccio e
mettiti seduta.”
Il rematore si bloccò all’istante, lasciando andare la presa della
ragazza. Poi, con calma, puntò lo sguardo in cagnesco su Cefalone.
“Pagliaccio a chi?”
La voce ferma, il tono di sfida.
Il fiumarolo non si scompose. Indicò la pista da ballo sul ponte.
“Trovi altri pagliacci qui in giro? Io vedo solo te.”
Marisa cominciò ad agitarsi.
“Dai, ragazzi, state buoni, non è successo niente. Cefalò, ti prego,
almeno oggi non ricominciare…”
Si allontanò di qualche passo. Ma non troppo. Meglio controllare
quelle teste calde.
Il canottiere si fece sotto. Le braccia tese lungo il corpo, il collo
eretto e il petto vigoroso, gonfiato dall’intenso vogare, annunciavano
aria di tempesta.
“Acchiappapesci, sciacquati la bocca quando parli con me”,
ringhiò.
Caricò la saliva in bocca. Quindi, protendendosi in avanti, la
scaricò sul viso del Cefalone.
Gambacorta bloccò di colpo il 78 giri. Peccato, sul retro già
scalpitava la samba frizzante di ‘El Negro Zumbon’.
Nel silenzio improvviso, un secondo tonfo fece vibrare la chiatta.
La nave dei folli, stavolta, tremò per un lungo istante.
Marisa strinse le mani alla ringhiera. Guardò preoccupata verso il
fiume scuro. Anche il Cefalone registrò la scossa anomala. Ma in
quel momento aveva altro a cui pensare.
Con calma, si passò il dorso della mano sullo zigomo. Chiuderla e
vibrare un montante sulla faccia del canottiere fu un gesto fulmineo.
Il naso prese a sanguinare.
Poi fu il caos. Cazzotti secchi, veloci da togliere il respiro, duri da
spaccare labbra. La chiatta del Ciriola un’arena che s’animava di
braccia alzate, grida scomposte, volti eccitati.
Marisa degnò di un solo sguardo il suo uomo. E tanto bastò.
La sua vita andava così, tra gelosie e risse. Non sarebbe cambiata
mai.
Corse via dallo zatterone. Dentro gli spogliatoi e poi giù, fino al
trampolino. D’estate i tuffi e la cagnara dei ragazzini mezzi nudi non
finivano mai. Ma ora c’era solo buio.
Il buio e la sua rabbia.
Si sedette sul bordo dell’asse, le gambe penzoloni nel vuoto.
Sentiva voglia di lacrime. Ora potevano scendere libere.
L’attesa era svanita. Quell’attesa vuota che il nuovo anno si
accorgesse del dolore che le stringeva di nascosto la gola.
Rabbrividì.
La notte s’inoltrava sempre più fredda e sconosciuta. Si sfilò i
tacchi. Li lasciò cadere nel fiume. Il buio li inghiottì all’istante.
Poi chiuse gli occhi. Abbandonarsi. Scivolare giù e andarsene
come quelle scarpe nuove infilate per uno sguardo del suo uomo.
La tentazione era più forte che mai.
Di nuovo, quel tonfo.
Dapprima Marisa notò il movimento. Cupo, oscillante, cadenzato.
Un movimento tranquillo nel gorgo del Tevere.
Lentamente, con orrore, quel movimento divenne una forma. Una
forma che appariva e scompariva nell’incresparsi della corrente.
Capelli. Biondi capelli distesi sul filo dell’acqua. La notte
ingannava ma quei filamenti biondi sembravano gridare nell’oscurità.
Le lacrime si asciugarono. Tutto si fermò. Tranne la danza della
giovane donna nella culla della corrente. Supina, tranquilla, con le
braccia aperte. Pronta a ricevere l’atto d’amore. Così, almeno, le
parve in quella seconda notte di gennaio.
La notte che spegneva ogni illusione.
Il corpo doveva essersi incagliato nella chiatta. Di qui quel rumore
sordo e ripetuto. Ora l’acqua lo trascinava via. Libero coi suoi sogni
verso l’oblio accogliente del fiume.
L’istinto fu di chiamare il suo Cefalone. Mai la sua protezione le
era apparsa così sicura e minacciosa. Gli uomini sarebbero passati
subito all’azione. Erano fatti così. Per questo, le donne continuavano
a soffrire. E, qualche volta, a morire.
No, Cefalone. Questa notte, no.
Un tuffo. Senza pensarci. Giù nel buio, fermando la paura. Il fiume
gelido le paralizzò il cuore. Solo per un momento. Forza nelle gambe
giovani. Tra l’acqua torbida di fango limaccioso e traditore.
Ecco. La corona di capelli sull’acqua. L’afferrò. Piano, piano, con
dolcezza. Senza tirare troppo. Scivolò leggera verso di lei.
Gli occhi erano chiusi. Il volto livido da accarezzare.
Così fece Marisa.
Dormi, bambina mia. Ti porto in salvo io.
Le cinse la vita con un braccio. Con uno slancio si spinse su, il
piede nudo sul greto erboso, una mano aggrappata agli arbusti. Il
corpo senza vita affiorò lieve dall’acqua.
L’urlo lacerò la notte.
Sulla chiatta smisero di fare a cazzotti.
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