Kabbalah – Il segreto, lo scandalo e l’anima – Harry Freedman

SINTESI DEL LIBRO:
Si racconta che quattro uomini entrarono nel Pardes. Nessuno sa
che cosa fosse il Pardes con esattezza, ma la parola in persiano
significa «giardino». La storia, però, non parla della visita a un
giardino; è il resoconto di un viaggio mistico verso le sfere celesti.
Pardes è la parola che ha dato origine al termine «paradiso».
I
quattro uomini vissero alla fine del I secolo. Il più famoso era
Akiva, il più celebre di tutti i rabbi del Talmud, la grande raccolta
delle leggi e dell’etica ebraiche. I suoi compagni erano ben Azzai,
ben Zoma ed Elisha ben Abuyah. «Ben» non è un nome, significa
«figlio di».
Quando entrarono nel Pardes, ben Azzai guardò (che cosa, non
si sa) e morì. Ben Zoma guardò e venne colpito. Elisha ben Abuyah
guardò e «potò i germogli», il che significa che abbandonò la fede.
Soltanto Akiva entrò in pace e ne uscì in pace.
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2È una storia molto
breve.
Probabilmente Akiva aveva già compiuto quel viaggio, mentre per
i
suoi tre compagni era la prima volta. Soltanto lui fece attenzione a
non guardare, e in un’altra versione della storia addirittura metteva in
guardia gli altri. Il suo avvertimento, tuttavia, era troppo oscuro:
«Quando arriverete presso la pietra di marmo puro, non dite “Acqua!
Acqua!”. Si trova infatti detto: Chi dice menzogne, non durerà alla
mia presenza».
3 I suoi compagni ovviamente non capirono di cosa
stesse parlando.
Il racconto è noto perché è uno dei pochissimi episodi della prima
letteratura ebraica tradizionale che tratta dell’occulto. Il fatto che
alcuni viaggiatori diretti a un luogo misterioso vengano colpiti da
morte e follia gli dona un certo fascino malefico, un’aura non
dissimile da quella di una storia di fantasmi narrata intorno al fuoco.
La storia compare nel Talmud per giustificare il divieto religioso di
fare congetture sull’occulto.
4È un avvertimento che mette in guardia
il lettore contro i pericoli derivanti dal cimentarsi in cose che non si
comprendono.
L’esortazione di Akiva, «Non dite “Acqua! Acqua!”», è misteriosa.
Il
Talmud non la spiega, e del resto non ha motivo di farlo; sta
soltanto riportando la storia a mo’ di avvertenza. L’esclamazione del
saggio inizia però ad avere un senso se ci si allontana dal Talmud e
si esaminano le versioni alternative della leggenda che compaiono
altrove. In particolare, in una raccolta di testi mistici poco conosciuti,
spesso incomprensibili e non di rado confusi, che trattano proprio
delle cose contro le quali mette in guardia il Talmud.
Composti tra il III e il IX secolo, questi testi descrivono le
esperienze compiute dai mistici ebraici nei loro tentativi di arrivare ai
palazzi celesti. Non sappiamo che tipo di persone fossero i
viaggiatori mistici, né ci viene mai detto perché fossero disposti a
sottoporsi al rigoroso addestramento mentale e alle privazioni fisiche
necessari a compiere quei viaggi dell’anima. Ciò che invece ci viene
detto è che, liberati per un momento dai vincoli fisici del corpo,
venivano colti da una profonda visione profetica, che scompariva
non appena ritornavano al loro stato naturale. Ispirati dalla curiosità,
quei viaggi erano un tentativo di capire che cosa c’era dopo. Erano
anche un esperimento scientifico per saggiare i poteri dell’anima
umana.
Le uniche testimonianze dei viaggiatori mistici, immancabilmente
uomini e sempre senza nome, sono contenute in questi testi, molti
dei quali vennero nascosti e rimasero ignorati per più di mille anni. In
un documento si legge che quando un «cercatore» giunge ai cancelli
del sesto palazzo celeste – sono sette in tutto – viene sopraffatto da
una sensazione opprimente, come se migliaia, milioni e miliardi di
onde d’acqua gli si riversassero addosso, sommergendolo e
spazzandolo via. In realtà non c’è neppure una goccia di liquido. È
tutta un’illusione creata dalle lastre luccicanti di marmo splendente
che ricoprono il palazzo. Trasparente come il cristallo e tanto
scintillante da sembrare liquido, il marmo pare acqua che scorre.
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Ma non lasciatevi ingannare, mette in guardia Akiva; le lastre non
sono acqua. La Falsità, anche quando è soltanto frutto di un
equivoco, non può perdurare in Cielo, dove tutto è Verità.
L’opera del carro
I
testi che contengono i resoconti dei viaggi verso il Cielo sono
oggi conosciuti come letteratura hechalot, o «del Palazzo». Si tratta
di un intreccio di molti scritti diversi, completati nel corso di più
secoli, e in molti casi sopravvissuti soltanto in forma incompleta o
poco comprensibile. Pur essendo lavori di mistica ebraica, non si
tratta ancora di quella che sarebbe stata definita Kabbalah;
passeranno vari secoli prima che il termine entri nell’uso. E non sono
neanche il primo esempio di scrittura mistica ebraica: fin dal III secolo
a.e.v., diversi veggenti avevano composto descrizioni dell’inferno e
del paradiso, terrorizzando i propri lettori con visioni apocalittiche e
previsioni degli eventi che si sarebbero verificati alla fine dei tempi. Il
Libro della Rivelazione (o Apocalisse di Giovanni) del Nuovo
Testamento, pur essendo un testo cristiano, è uno degli ultimi
esempi di questo genere e, naturalmente, il più celebre.
Benché i testi del Palazzo non siano Kabbalah, rappresentano
l’inizio della sua storia e il primo passo significativo dell’evoluzione
trimillennaria del pensiero cabalistico. Fino ad allora, a partire dai
primissimi libri della Bibbia, tutte le rivelazioni mistiche erano state
concesse da Dio e dagli angeli a esseri umani prescelti, che spesso
non l’avevano chiesto. La letteratura del Palazzo segna il momento
in cui gli uomini smisero di sperare in una rivelazione dall’alto e
decisero di procurarsi da soli uno scorcio sul paradiso; in quel
momento cominciarono a elaborare rituali esoterici, che spesso
comprendevano rigide privazioni ascetiche, con l’intenzione di
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scoprire che cosa accadeva all’interno delle sfere celesti.
Naturalmente è nella Bibbia che vengono accordate le prime
visioni divine. I libri iniziali dell’Antico Testamento riferiscono spesso
di incontri fra Dio e gli uomini. Adamo ed Eva, Caino, Noè, Abramo,
Mosè e tanti altri intrattengono conversazioni con il loro Creatore.
Egli si rivolge perfino al serpente nel Giardino dell’Eden, il quale
però, considerata la punizione ricevuta, avrebbe forse preferito
essere ignorato. In ogni caso non era un serpente qualunque, come
chiarirà poi la Kabbalah. Tuttavia, nonostante le visioni e le
numerose descrizioni, la Bibbia è di una singolare riservatezza
riguardo alla dimora di Dio, se non proprio all’esistenza stessa di una
tale dimora. Certo, ci informa di un luogo chiamato paradiso che si
trova in cielo, o dei costruttori della Torre di Babele che tentano,
senza successo, di raggiungerlo. Lo stesso Mosè sale sul monte per
incontrare Dio, che scende dall’alto verso di lui; insieme agli anziani
che lo accompagnano, il profeta vede un pavimento in lastre di
zaffiro sotto i piedi dell’Onnipotente.
7Ma né lui né altri, nelle prime
parti della Bibbia, riescono ad allungare lo sguardo sul paradiso; o
se anche ci riescono, comunque, non lo dicono.
Le prime descrizioni del paradiso si trovano nei Libri dei Profeti.
Isaia, che visse qualche tempo prima della distruzione del Tempio di
Gerusalemme del 586 a.e.v., ebbe una visione di Dio seduto su un
trono, in apparenza vestito di un manto fluttuante, i cui lembi
«riempivano il Tempio». Nei pressi, fiammeggianti angeli a sei ali,
noti come serafini, proclamavano la santità di Dio, mentre le loro voci
risuonavano a tal punto che gli stipiti delle porte vibrarono e il tempio
si riempì di fumo.
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Il racconto di Isaia è la prima descrizione scritta di una fugace
visione dell’interno del Cielo. Fu però il profeta Ezechiele a fornire
più avanti maggiori dettagli su quello che un visitatore in tutta
probabilità avrebbe potuto vedere una volta giunto ai cancelli celesti.
A differenza di Isaia, Ezechiele era vivo quando Gerusalemme e il
Tempio furono distrutti per mano dei babilonesi. Insieme ai suoi
compatrioti visse da profugo lungo i fiumi di Babilonia, sognando di
tornare a Sion e di ricostruire il Tempio. L’ultima parte del libro che
porta il suo nome è occupata da una descrizione minuziosa
dell’aspetto che avrebbe avuto il Tempio ricostruito. Il progetto si
basava su ciò che gli era apparso sotto forma di visioni profetiche.
Nel primo capitolo racconta che, mentre sedeva presso il fiume, il
cielo si aprì, una tromba d’aria si scatenò da settentrione e, in mezzo
alle nubi, alle fiamme e ai lampi, apparve il Cielo.
Ezechiele vide quattro creature alate e incandescenti in un turbine
di fuoco. Ognuna aveva quattro volti: uno umano, uno di toro, uno
d’aquila e uno di leone. Si spostavano su ruote che giravano in
mezzo ad altre ruote, e i loro cerchi erano tempestati di occhi.
L’intera costruzione si teneva insieme come un tutt’uno; la sua forza
vitale stava nelle ruote, e in qualunque direzione si muovesse,
guardava sempre in avanti. Quando si muoveva, il battito d’ali delle
creature pareva una tempesta di acqua scrosciante, o il rombo di un
esercito che si ingrossasse in un terribile crescendo. Quando si
fermava, le ali si ripiegavano. Unite proprio dalle ali, le quattro
creature e le loro ruote formavano la base di un trono di zaffiri, o
Carro, sopra il quale Ezechiele avvertì una presenza indescrivibile
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che chiamò «gloria del Signore».
Più avanti, il profeta ebbe un’altra visione. Questa volta Dio lo
afferrò per i capelli, sollevandolo tra la terra e il cielo, e gli mostrò il
Tempio di Gerusalemme profanato. Ezechiele si riferisce al Tempio
con il termine hechal, lo stesso impiegato da Isaia per indicare il
palazzo celeste della sua visione. Le due visioni sono collegate da
questa parola, che significa «palazzo». L’idea di una Gerusalemme
celeste, o di un Tempio come rappresentazione del Cielo sulla terra,
tanto preponderante nel tardo pensiero cristiano ed ebraico, prende
dunque forma nelle profezie di Isaia ed Ezechiele.
Benché a noi possa sembrare strano associare il Cielo a un
semplice palazzo o anche a un tempio, dati i loro limiti fisici e le
peculiarità architettoniche, una tale descrizione aveva perfettamente
senso nel mondo antico. A quell’epoca alcuni dèi erano considerati
poco più di re sovrumani e, in molti casi, i re diventavano addirittura
dèi. Lo stesso Ezechiele riferisce che il faraone d’Egitto, sovrano
terreno come pochi altri, sosteneva di aver creato il Nilo.
10 Di certo
né Isaia né Ezechiele pensavano al Dio di Israele in questi termini,
ciò nonostante trovavano naturale descriverlo con attributi regali.
Ben presto il Tempio di Gerusalemme venne ricostruito, anche se
Ezechiele non visse abbastanza a lungo da vederlo. L’edificio rimase
in piedi per mezzo millennio fino al 70 e.v., quando fu di nuovo
ridotto in macerie per mano dei romani. Questa volta non venne
ricostruito. Tutto ciò che rimase agli ebrei fu lo struggente desiderio
di vederlo risorgere un giorno in un futuro indefinito.
La maggior parte esprimeva quel desiderio con la preghiera e il
pentimento. Ma alcuni si spinsero oltre. Mossi dallo stesso anelito di
tutti gli altri, ricostruirono il Tempio in senso metaforico. Poiché le
circostanze ne impedivano la riedificazione sulla terra, e dal
momento che ormai conoscevano bene il concetto di Tempio
celeste, trasferirono in cielo, per così dire, il Santuario di
Gerusalemme, sussumendolo nella sua controparte ineffabile. Non
potendo recarsi in pellegrinaggio al Tempio terreno, gli spiriti mistici
cercarono dunque una via per ascendere al suo paradigma celeste.
L’esperienza di Ezechiele fornì loro l’impulso necessario. Anche
se l’indescrivibile presenza divina avvertita dal profeta andava al di
là di qualunque contemplazione, a catturare la mente di coloro che
ambivano ad ascendere alle regioni empiree fu la visione del Carro
divino. I testi della letteratura hechalot descrivono svariati tentativi di
risalita verso il Carro. Tuttavia, come per proteggersi dalle malvagie
attenzioni degli spiriti maligni, sempre in agguato contro gli ignari
pellegrini, chi provava a raggiungere il Carro non parlava mai di
ascesa. Il viaggio verso l’alto diretto al Carro celeste viene sempre
chiamato discesa. I demoni, come tutti sappiamo, possono essere
ingannati con i trucchi più semplici.
La discesa verso il Carro poteva essere compiuta soltanto in
condizioni di totale purezza. Uno di quei testi prescriveva un regime
ben più estremo di qualunque cosa saremmo disposti a provare
oggi. Si richiedeva all’adepto di digiunare per quaranta giorni (forse
mangiando di notte, non è chiaro). Inoltre avrebbe dovuto
immergersi ventiquattro volte al giorno in un fiume, un lago o un
bagno rituale. Nel frattempo, doveva sedere in una dimora buia e
astenersi dal guardare donne.
11 Soltanto a quel punto era pronto per
mettere la testa fra le ginocchia, come aveva fatto Elia quando
aveva invocato la pioggia,
12 e recitare le formule che gli avrebbero
permesso di passare attraverso i sette Cieli che lo separavano dal
Carro.
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