Il pazzo dello zar – Jaan Kross

SINTESI DEL LIBRO:
Per prima cosa voglio qui riferire il motivo che mi induce a
cominciare questo diario. Ecco, ho scritto proprio cominciare, perché
non so prevedere se la cosa avrà un suo seguito. Io ne dubito molto:
tenere un diario di questi tempi e in questo paese è cosa ingrata
quanto inopportuna, né è, la nostra, la famiglia più adatta per questo
genere di cose.
Comunque sia, se ne verrà fuori qualcosa, questo diario non potrà
che essere segreto. Per tale ragione posso già qui, al suo esordio,
confidare il motivo per cui lo scrivo. Ebbene, mi sono deciso a tenere
un diario perché sono rimasto coinvolto in fatti che io considero
veramente straordinari e tali che qualunque essere pensante che ne
fosse stato anche involontario testimone oculare non potrebbe fare a
meno di tentare di mettere per iscritto le sue riflessioni. Può darsi
benissimo che io sia soltanto un testimone superficiale e che un’altra
persona, penetrando più a fondo nelle cose, avrebbe invece
rinunciato a darne un resoconto fedele. Questo, solo Dio lo sa.
Per la verità, se mi guardo indietro, devo riconoscere che non è da
ieri che sono incappato in queste vicende. È da dieci anni, anzi da
molto prima, e nel frattempo sono cambiato io stesso, fino a
diventare un personaggio alquanto strano. Del resto, quale altro
contadinello di Holstre, il mio paesino, ha mai avuto l’opportunità in
questi lunghi anni – a partire, penso, almeno dal 1814 – di
apprendere e vedere tutte le cose che, una dopo l’altra, il destino mi
ha fatto scorrere davanti agli occhi, con la rapidità con cui si
cambiano le quinte nell’opera italiana…
Bene. Oggi fanno già due settimane da quando, sotto un’insistente
pioggia primaverile, siamo arrivati da Pietroburgo qui a Võisiku. Noi,
ovvero: Eeva, il piccolo Jüri (ha solo otto anni, ma Eeva lo aveva
voluto con sé a Pietroburgo, benché l’avessi consigliata altrimenti),
Timo, il servo Käsper, la cameriera Liiso, io e, beninteso, il cocchiere
Juhan. Ci sono, inoltre, un sottufficiale di polizia e i suoi tre
gendarmi.
Per desiderio di Eeva, senza far sosta a Pietroburgo dai parenti di
Timo, ci eravamo diretti come al solito sulla Mojka dalla vedova
dell’accademico Lehrberg. Già da alcuni mesi Timo era stato
trasferito da Schlüsselburg nella Fortezza di Pietro e Paolo e quando
finalmente, la sera del 10 maggio, era stato portato nella dimora
della signora Lehrberg, non vi era certo arrivato solo, ma affidato alla
custodia di un sottufficiale, il quale, beninteso, avrebbe dovuto
pernottare da noi. Eeva mi aveva allora ordinato di condurlo nella
cucina della signora Lehrberg e di farlo ubriacare. Assolvere il
compito mi era stato più facile di quanto non avessi sperato, grazie
soprattutto al forte liquore alle ciliege della padrona di casa, che ne
aveva elargite due intere bottiglie, dicendomi con una strizzata
d’occhio: «Um Gottes willen nicht geizen!»
1
Il sottufficiale, una volta in cucina, si era tuffato senza indugi sulla
zuppa di crauti, tracannando alcol in abbondanza; aveva fischiettato
un poco, ma presto si era assopito, mettendosi poi a ronfare. Nel
frattempo, nel salone della signora Lehrberg erano arrivati per
salutare Timo quattro o cinque signori, tutti con i baveri alzati.
Bisbigliavano e si soffiavano il naso in maniera piuttosto goffa. Non
sono riuscito a capire chi fossero perché li avevo appena intravisti
dallo spiraglio di una porta socchiusa. Per giunta, nel vestibolo
ardeva un’unica candela e quei signori non avevano soltanto il
bavero del loro mantello sollevato, ma nascondevano anche
accuratamente il volto con una sciarpa tirata fin sopra il naso. Avevo
udito Timo chiamare uno di loro Vasilij Andrejevič, e poiché questo
Andrejevič mfi era sembrato ancora più a disagio degli altri, mi era
venuto da pensare che si potesse trattare del poeta Žukovskij, da
me già incontrato una volta cinque o sei anni prima. Si diceva anche
che l’aver stretto amicizia con un uomo così scellerato come Timo,
proprio mentre Žukovskij aveva la mansione di precettore della
zarina, fosse stato sentito a corte come un duplice oltraggio. In realtà
mi ero stupito non poco che in un paio d’ore Timo avesse potuto
ritrovare così tanti amici desiderosi di farsi ricordare e di
manifestargli la loro simpatia, mentre nei nove lunghi anni in cui era
scomparso non si era fatto vivo quasi nessuno, all’infuori di
Žukovskij…
Verso le sei del mattino – il nostro sottufficiale si era già svegliato
erano arrivati tre gendarmi di rinforzo, che erano tornati
immediatamente utili a Eeva. Avevano infatti dovuto trasportare fuori
i nostri bauli e fissarli sul tetto della carrozza. Così avevo avuto
modo di ascoltare i vicini di casa che sul portone commentavano fra
loro: «Questa signora von Bock è davvero un diavolo di donna…
Non solo si è recuperata il marito… ma ora gli ha messo perfino a
disposizione come facchini un mezzo battaglione di gendarmi…»
I facchini, ovviamente, erano là, agli ordini del loro sottufficiale, solo
per tenerci d’occhio da Pietroburgo a Võisiku e badare che non
deviassimo dall’itinerario prescritto, fuggendo magari all’estero
cosa che si temeva più di ogni altra – o chissà dove. Che non
spedissimo qualche missiva o parlassimo con gente estranea,
facendo rivelazioni che potevano nuocere allo Stato.
Durante il viaggio avevo avuto l’occasione, dopo nove anni, di
osservare Timo con cura. Non era vero che fosse, come avevo
sentito mormorare, mostruosamente ingrassato. Certo, quando lo
avevano catturato era un giovane signore, slanciato e affascinante,
che dimostrava molto meno dei suoi trent’anni, mentre ora aveva
l’aspetto di un cinquantenne e, con la bocca sdentata, pareva ancora
più vecchio. Il segno più allarmante, tuttavia, era a mio parere il
colorito grigiastro del volto, molto più dei capelli incanutiti e dei pochi
chili di troppo che aveva preso. Quanto a perdere un po’ di peso, gli
sarebbe bastato riprendere subito a cavalcare. E questo, grazie a
Dio, aveva cominciato a farlo già durante il viaggio! Ancora per
strada, aveva infatti aperto il finestrino della carrozza e fatto cenno al
graduato di avvicinarsi, spiegandogli qualcosa e chiedendo quindi di
arrestare la vettura. «Kitty, cavalcherei un po’. Sono rimasto troppo a
lungo senza fare del moto.»
Era sceso. Uno dei gendarmi gli aveva ceduto il proprio cavallo e si
era seduto accanto a Käsper, dietro i bauli accatastati. Timo, una
volta in sella, aveva fatto volteggiare il cavallo per poi lanciarlo per
un lungo tratto al galoppo. Il sottufficiale e i due gendarmi si erano
limitati a seguirlo alla rispettosa distanza di una cinquantina di
passi…
Io ero rimasto seduto in vettura a guardarmi intorno: il piccolo Jüri,
dalla carnagione scura e il nasino all’insù, era tutto avvolto in una
coperta da viaggio a quadretti e dormiva profondamente sul sedile
posteriore. Su quello anteriore sobbalzava la testa color stoppa di
Liiso, che si era appisolata. Avevo teso l’orecchio verso Eeva e,
nella nostra lingua contadina (solo dopo mi ero reso conto che quello
era come un segnale d’intesa per dire che, di certe cose, anche in
futuro, avremmo parlato tra noi soltanto in estone), le avevo chiesto
sottovoce: «Eeva, che cosa gli è successo ai denti?» E lei mi aveva
bisbigliato all’orecchio: «Strappati via dalla bocca, uno dopo l’altro.»
Aveva abbassato le palpebre e alla radice del naso le erano
comparse delle piccole rughe. Tenendo sempre gli occhi chiusi,
aveva mormorato: «Con qualcosa di pesante. Timo mi ha anche
detto che cosa, ma non ho capito di che strumento si trattasse.»
Vedevo il viso di Eeva, i cui occhi erano ancora chiusi, contrarsi per
il dolore. La carrozza cigolava sobbalzando e le ombre delle betulle
lungo la strada le sfilavano sul volto. «Non amo mia sorella»,
pensavo. «No. È stata troppo pronta a buttarsi a capofitto verso
l’ignoto, non appena questo giovane possidente le ha fatto un cenno.
E si è messa in una situazione contro natura. E per giunta
trascinandomi con sé. Eh sì, tutta questa storia è contro natura,
anche se in fondo non si tratterebbe che delle nozze di una giovane
contadina con un barone… No, non amo questa mia sorella,
irruenta, caparbia, incomprensibile. E lei lo sa… Eppure ha fiducia in
me… e in chi altri potrebbe averne ancora?… E io in lei,
probabilmente…»
Comunque stessero le cose, avevo cercato la sua mano tra le
pieghe della gonna di mussolina e il cuscino della carrozza; la sua
piccola mano morbida e forte, e l’avevo stretta perché capisse che
apprezzavo la fiducia che riponeva in me. E lei aveva ricambiato la
stretta. Avrei voluto farle mille domande e chiederle, prima d’ogni
altra cosa: «Eeva, dimmi, Timo è ora davvero pazzo come è stato
ufficialmente dichiarato? O a volte gioca a farlo per non essere
sbattuto in una cella?…» E ancora, la domanda più importante:
«Eeva, dimmi, perché gli hanno fatto tutto questo?» Ma non le avevo
chiesto nulla, perché non volevo che si chiudesse di colpo in se
stessa zittendomi con una bugia di circostanza, come fossi un
estraneo. Non le avevo più detto niente, limitandomi a osservarla,
pensando: «Davvero non so dove mia sorella abbia preso questo
suo carattere così impetuoso… Ma guarda solo come si è conciata i
capelli.»
1«In nome di Dio, non ne lesini!» (Tutte le note a piè di pagina sono a cura del traduttore.)
Stesso luogo, venerdì 27
Ieri sera sono stato disturbato, o meglio, ho immaginato di esserlo
stato, per capire se sarei capace di nascondere abbastanza
velocemente questo diario nel caso mi capiti di doverlo fare mentre
lo sto scrivendo nella mia stanza, che ha la porta che non si chiude.
Credo di esserci riuscito.
Avevo comprato questo piccolo quaderno nero da Schade, a
Viljandi, due settimane prima del nostro ultimo viaggio a Pietroburgo.
Sul momento non pensavo a un diario.
Avevo piuttosto l’intenzione di annotarvi tutte le massime che
avessi incontrato nelle mie letture. Non che volessi usarle per brillare
nella nostra società, poiché per le persone semicolte (come me)
questa rimane di solito una mera velleità, mentre chi è davvero colto
vi riesce sempre e senza affannarsi troppo. No, davvero. Intendevo
solo tenerle per me; aforismi tali da saper restituire, in due o tre
righe, tutto il succo di un libro di due o trecento pagine. Invece, dopo
che eravamo tornati da Pietroburgo e Timo si era ricongiunto a noi,
avevo cominciato a riflettere sulla nostra vita; così, un giorno, mentre
me ne stavo qui in camera mia, lo sguardo mi cadde sul quaderno
ancora vuoto e di colpo mi venne l’idea di tenervi un diario, grazie
anche al fatto di aver scoperto un nascondiglio dove farlo sparire alla
svelta in caso di necessità.
Anche adesso, nonostante la nostra famiglia sia al gran completo,
questa stanza è rimasta a mia disposizione. Si trova nella mansarda,
in fondo all’ala destra della casa. È il locale dove Timo, dieci anni fa,
si era allestito uno studiolo, e che io avevo poi occupato in sua
assenza. Grande sei o sette metri quadri, ha un’unica porta, che dà
sul corridoio, e due finestre, una di fronte all’altra: l’una si affaccia sul
davanti della casa mentre l’altra, che dà sul retro, guarda su un
grande meleto inselvatichito. La casa è stata costruita agli inizi del
secolo scorso. Si diceva che il padre di Timo non avesse potuto
concedersi una residenza padronale nuova perché tutto il denaro
che gli sarebbe stato necessario allo scopo lo aveva destinato alla
stampa e alla diffusione di progetti, prospettive e proposte che aveva
via via elaborato, congiuntamente a Lehrberg, per far riaprire
l’università di Tartu. Di conseguenza, la nostra cosiddetta residenza
padronale è in realtà un vecchio edificio, i cui massicci camini si
rastremano grossolanamente verso il soffitto, come spesso accade
in case del genere. Uno di questi colossi attraversa proprio la mia
stanza. E in più vi hanno affiancato una stufa di maiolica olandese
con una canna fumaria rivestita di mattonelle bianche. Questo il
mostruoso complesso che di fatto taglia in due la camera. Oltre la
stufa, a ridosso della sporgenza della finestra che dà sul meleto, c’è
il mio minuscolo scrittoio, a cui ora sto scrivendo. Qui si trova anche
il nascondiglio che mi fa tanto temerario (la tentazione è troppo forte)
da tenere un diario in una casa come la nostra. In questo punto il
soffitto di legno dipinto di bianco è molto basso. Un giorno, mentre
stiracchiavo un braccio, lo ho urtato facendo così scricchiolare
un’asse, che si è sollevata come fosse lo stretto coperchio di una
scatola. Quando ho ritratto la mano, si è riabbassata con un lieve
cigolio, andando a richiudersi perfettamente. Ho dovuto riprovare ad
aprirla un bel po’ di volte prima di capirne il meccanismo. L’asse a
destra si alzava soltanto se nel contempo premevo quella di sinistra.
Dovevano essere collegate tramite un dispositivo nascosto,
qualcosa come una molla tra due pezzi di legno. Infilando la mano
nell’angusta apertura ho trovato un piccolo spazio vuoto, con
nient’altro che ragnatele e polvere, una sorta di scatola di legno
lunga non più di due braccia e larga due o tre spanne. Un attimo
dopo ho capito che quello sarebbe stato il nascondiglio ideale per il
mio diario…
A quanto leggo, ieri mi sono interrotto mentre scrivevo del carattere
e dei capelli di mia sorella. Sì. La natura ha donato a Eeva dei
capelli davvero bellissimi, anche se qui da noi non sono cosa
straordinaria, è facile vederne di simili nei dintorni di Holstre. Gli
amanti dei vocaboli ricercati li definiscono color biondo Tiziano.
Ebbene, pochi mi crederanno, ma nel primo anniversario dell’arresto
di Timo, il 19 maggio 1819, faticammo a riconoscerla quando, uscita
dalla sua stanza, scese a colazione: la sera prima si era tinta i
capelli, che ora ricordavano una bandiera a lutto, nero-pece. Jüri,
che all’epoca aveva otto mesi, si mise a strillare non appena la
madre cercò di prenderlo in braccio, come se volessero infilzarlo e
farlo arrosto… Noi tutti eravamo spiacevolmente sorpresi.
«Ma perché l’hai fatto?» le chiesi.
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