Il nido delle ombre – Barbara Scudieri

SINTESI DEL LIBRO:
Le bambine avevano giocato allegramente nel giardino per molto
tempo. Braxton era stato sempre con loro. La sua dedizione era
straordinaria e sembrava non conoscere limiti quanto la sconfinata
pazienza che caratterizzava il suo temperamento mite e tranquillo.
Jane amava l’amore totalizzante che Braxton trasmetteva alle figlie,
l’infaticabile desiderio di giocare con loro, di assecondare ogni loro
esigenza o pretesa, ma sapeva in cuor suo che non sarebbe mai
stata come lui. I suoi nervi erano sempre in procinto di cedere da un
momento all’altro e negli ultimi anni le cose erano nettamente
peggiorate. Forse un tempo aveva più pazienza ed era più
spensierata. Era una donna diversa qualche anno prima.
Una volta rientrati nel piccolo casolare, Rose sembrava impaziente
di uscire nuovamente. Scalpitava sull’uscio di casa, con gli stivaletti
bianchi macchiati d’erba, pervasi da una febbrile eccitazione.
“Dobbiamo andare a vedere Nest House!”, aveva ripetuto più volte la
bambina, costringendo Braxton ad uscire nuovamente per indicarle il
sentiero che li avrebbe condotti alla nuova casa. Si erano allontanati
nel giardino e la natura ne aveva assorbito le voci. Violet, invece, di
indole più pacata, non aveva la stessa tendenza della sorellina nel
formulare capricci e pretese e dopo essersi sfilata le scarpe se ne
stava mogia, sul divano accanto alla madre, come se avesse
esaurito tutte le energie.
“Abbiamo lasciato Big Rabbit in macchina!”, osservò la piccola,
mentre un lampo di preoccupazione le attraversava lo sguardo. Era
solita giocare con un pupazzo di spugna a forma di coniglio con le
orecchie e il corpo allungabili, senza il quale nessun gioco, degno di
essere chiamato tale, sarebbe potuto iniziare. Jane sapeva che
avrebbe pianto, conosceva quegli occhi quando erano in procinto di
riempirsi di lacrime. Nonostante non avesse voglia di uscire e
volesse solo godersi la quiete che quel vecchio casolare le aveva
concesso, decise di uscire per fare un salto alla macchina. Ci
avrebbe messo un paio di minuti o poco più, così intimò a Violet di
restare lì ad aspettarla mentre le andava a prendere Big Rabbit. Nel
vedere che Rose e Braxton erano di ritorno da Nest House si
rincuorò.
“Vado a prendere Big Rabbit, l’abbiamo lasciato in macchina, Violet
è in casa e non può giocare senza di lui.”
“È bellissima la nuova casa, mamma! È grandissima!”, le aveva
detto Rose con la luce che le brillava negli occhi. Jane le aveva
risposto che non vedeva l’ora di vederla ma, mentre si allontanava
per il sentiero per raggiungere la macchina, aveva riflettuto sul fatto
che le parole dette alla figlia non fossero proprio frutto della verità.
Non le importava granché di Nest House, di quanto fosse grande, di
quante camere vi fossero e di dove il sole battesse dall’alba sino al
tramonto. Non le importava nulla di ciò che riteneva superfluo. Aveva
bisogno di una casa, ma non fuori di lei. Non qualcosa che la
potesse contenere. Qualcosa che dentro di lei la potesse
proteggere. Un luogo dove stare bene e poter cancellare i ricordi.
Si dice che il passato si ricorda sempre di noi, che trascorre il suo
tempo all’indietro, solo per cercare errori, rimpianti e rancori e
portarcene il conto. Quando arrivò alla macchina Jane si accorse di
avere il fiato corto. Aveva percorso pochi metri, eppure le sembrava
quasi di non riuscire a respirare. Cercò Big Rabbit sul sedile
posteriore, ma del pupazzo non vi era alcuna traccia. Possibile che
fosse sparito così all’improvviso? L’idea di ritornare da Violet senza
Big Rabbit non le sfiorò la mente neanche per un istante. Si allungò
sul sedile posteriore, con lo sguardo esplorò ogni angolo del tappeto
dell’automobile alla ricerca di quel pupazzo bianco, le cui maledette
orecchie non sbucavano da nessuna parte.
“Accidenti! Ma dove sei finito?”, inveì nervosamente, mentre i capelli
le ricoprivano il viso. Solo in quell’istante si tirò su e lo notò. Il
finestrino
dell’automobile, dalla parte del conducente, era
completamente rotto. Ebbe un sussulto nel constatare quella terribile
scoperta. La testa aveva iniziato vorticosamente a girare e le chiome
degli alberi parevano averla raggiunta fin dentro la macchina. Il
verde della natura era ovunque e non appariva più consolatorio.
Quel tetto, che la vegetazione placidamente aveva costruito nel
tempo, aveva iniziato ad abbassarsi sempre di più, inghiottendo
Jane, l’automobile e quel maledetto coniglio che era completamente
sparito nel nulla. Lo specchietto retrovisore divenne per un istante il
riflesso di quell’attimo in cui il nulla dominava la scena e la
soggiogava alla sua spietata volontà. Vi era qualcuno là fuori.
Qualcuno che forse voleva fargliela pagare. Qualcuno doveva averli
seguiti, qualcuno che lei conosceva molto bene. Si chiuse in
macchina. Sentiva le gambe molli e sapeva che non sarebbe riuscita
a camminare e a raggiungere il casolare. Eppure erano solo pochi
minuti, poteva farcela. Doveva solo concentrarsi e cercare Big
Rabbit. “Una cosa per volta”, si disse. “Puoi farcela Jane, ma prima
devi calmarti”. Il Metodo 4-7-8. Bisognava inspirare per 4 secondi,
trattenere il respiro per 7 ed espirare per 8 secondi. Quella tecnica di
respirazione era molto efficace se eseguita correttamente. Doveva
solo iniziare. Ripeté per due volte l’esercizio e sentì lentamente che
il cuore stava decelerando e che il respiro era divenuto più regolare
e costante. Il verde della natura era uscito dai suoi occhi ed era
finalmente fuori, intorno a lei, quasi a consolarla. Le mani sudate
avevano scacciato via il tremore e ora erano ferme sul suo ventre
che si alzava e si abbassava sconquassato dal panico. Il vento
tormentava gli alberi e il sole, che aveva accompagnato quel viaggio,
era sparito. Jane temeva che non sarebbe più uscita dalla macchina.
Era più calma, ma immobile, come pietrificata. Doveva cercare Big
Rabbit. Pensò a Violet che l’aspettava, che attendeva solo quel
coniglio per dare inizio ai suoi giochi. La ricerca di quel peluche le
provocò una nausea tale che fece fatica a continuare. Big Rabbit era
sparito, forse si era nascosto da qualche parte. Violet avrebbe
pianto, no, non doveva piangere. Jane non era nelle condizioni di
restare lì, da sola, in quella macchina. Non era in grado di cercare
Big Rabbit. In realtà, non era in grado di fare nulla. Per un istante
pregò di vedere sbucare Braxton dal sentiero per condurla sino a
casa. Poi un moto interiore la scosse. Forse fu la paura più cieca o il
desiderio di rivedere Braxton e le bambine. O quel casolare dove si
sentiva al sicuro. O dove si era illusa di sentirsi al sicuro. Doveva
uscire dall’automobile e tornare dalla sua famiglia. Tutto il resto non
aveva nessuna importanza. Chiuse gli occhi per qualche istante e si
abbandonò al buio.
“Tutto ok?” le chiese una voce maschile, facendola sobbalzare.
L’uomo era dinanzi al vetro rotto e la guardava insistentemente
come se avesse intuito qualcosa, come se le si leggesse in viso
l’uragano che la stava devastando. Non era riuscita a rispondere
subito, le parole erano rimaste bloccate da qualche parte, ma non
sapeva bene dove. Poi si era ricomposta ed era scesa
dall’automobile, fingendo una strana tranquillità, una disinvoltura che
non le apparteneva. Sentiva ancora le gambe tremare, ma non
amava mostrare agli altri, tanto meno ad uno sconosciuto, quella
debolezza che da molto tempo possedeva la sua vita, il suo essere.
“Sta bene?”, chiese quell’uomo, sfiorandole il braccio sinistro come a
volerla sorreggere.
“Sto benissimo, grazie. Ora devo andare”, rispose Jane, dando le
spalle a quell’estraneo.
“Il finestrino della macchina è rotto… qualcuno deve aver tirato una
pietra contro il vetro”, disse lo sconosciuto, raggiungendola.
“Le ho detto che è tutto ok! Ma si può sapere chi è lei? E cosa ci fa
nella mia proprietà?”. Mentre le pronunciava una ad una, Jane
percepì quanto le sue parole tradissero insofferenza, diffidenza,
astio. E anche il tono aspro, che la sua voce aveva meccanicamente
assunto, era terribilmente odioso.
“Mi occupo dei lavori di ristrutturazione di Nest House, per oggi
abbiamo finito, sto tornando proprio da lì…”, asserì lo sconosciuto,
lasciando che i suoi occhi liquidi si incollassero a quelli fissi della
donna solo per esplorarne le sfumature.
“Molto… molto piacere. Ora devo andare, mi scusi”, concluse
risoluta Jane, sentendo il bisogno di fuggire dall'incontro con
quell'estraneo che, non l’avrebbe mai ammesso, l’aveva salvata da
un terribile attacco di panico che la teneva intrappolata in macchina.
Così, fuggì via per il sentiero e, mentre raggiungeva il casolare con il
cuore che le pulsava in gola, pensò a Big Rabbit. Che cosa avrebbe
detto a Violet? Come avrebbe potuto consolare le sue lacrime? Più
pensava a quale giustificazione dare alla figlia, più le schegge di
quel finestrino rotto le pungevano l’anima, ridisegnandone i contorni
sempre più sfocati, scoloriti, come indefinito era divenuto il suo
terrore che con il tempo aveva perso definitivamente ogni forma
certa, assumendo molteplici parvenze, crudelmente, giorno dopo
giorno. Quando finalmente scorse il piccolo casolare si accorse che
tutto era immobile. La luce del giorno si era abbassata e, essendo
pomeriggio inoltrato, presto le ombre avrebbero dato a quel giardino
un nuovo volto. Forse migliore o forse peggiore. Braxton e le piccole
non erano in casa. Prima che la paura tornasse a fare capolino nel
suo cuore, il pensiero che fossero andati a Nest House trattenne per
la coda anche gli altri. Si distese sul divano per riprendere fiato. Non
voleva stare nuovamente da sola. Non quando sentiva che la paura
poteva fare ritorno ed essere ancora più spietata. Repentinamente
uscì fuori e si diresse verso quella che sarebbe presto divenuta la
sua casa. Il suo rifugio. O almeno era questo quello che desiderava
più di ogni altra cosa al mondo.
Quando fu dinanzi a Nest House percepì una sensazione strana. Un
edificio freddo, cupo, si stendeva su un prato soggiogato dalla mano
umana. Quando Braxton aveva acquistato quella casa, le aveva
mostrato varie fotografie della struttura, ma nessuna di quelle
rispecchiava l’immagine che i suoi occhi ora potevano osservare dal
vivo. La natura sembrava essere fuggita da quel luogo e la casa
pareva una sorta di prigione con le grate al posto delle finestre e
l’erba gialla e secca cresceva a sprazzi senza segni di vita su un
prato scolorito.
“Accidenti”, pensò Jane. Si guardò intorno e tutto quello che riusciva
a vedere era arido e tetro, nulla di ciò che la sua immaginazione si
attendeva da quella nuova vita che stava per iniziare. Nulla che
avesse a che fare con il giardino e il casolare degli Asbury dove ora
alloggiavano. Forse quel vetro rotto, lo spavento che ne era derivato
poteva aver alterato la capacità di cognizione, mostrandole la realtà
non per quello che era, ma per quello che la sua mente distorta
riusciva a cogliere. Con grande stupore, raggiungendo l’edificio e
perlustrandone gli angoli, si rese conto che Braxton e le piccole non
erano lì. Forse stavano indugiando da qualche parte in
quell’immenso giardino e giocavano spensierati senza pensare più a
lei né a Big Rabbit. Nest House era chiusa, sigillata su sé stessa,
malinconica e cupa nei suoi colori tetri. L’edificio principale con due
comignoli neri appuntiti come aquile sulla sommità del tetto
dominava un edificio più basso che si allungava timidamente e che,
succube, era annesso ad essa e sfociava in una piccola balaustra.
La porta rossa risaltava sulla geometrica e fredda simmetria della
casa, la cui facciata grigia le dava un aspetto austero che, a primo
impatto, metteva soggezione allo sguardo. Jane rimase a fissarne le
finestre, poi si avvicinò ad una di esse e sbirciò all’interno. Fu allora
che i suoi occhi le mostrarono un movimento sinistro talmente rapido
che non fu capace di capire bene che cosa lo avesse generato.
Un’ombra si era mossa all’interno della casa, forse c’era ancora
qualcuno dentro, un operaio che doveva ultimare qualche lavoro o lo
stesso Jo Corwell, l'ex proprietario, tornato a Nest House per chissà
quale motivo. Si ricordò che lo sconosciuto, con cui aveva parlato
mentre era braccata in macchina in preda al terrore, le aveva detto
di aver finito i lavori per quella giornata. Mentre rifletteva su che cosa
potesse aver visto all’interno della casa, udì il rumore di un vetro
frantumarsi dinanzi ai suoi occhi e una pietra caderle accanto ai suoi
piedi, a pochi centimetri da lei. Attonita, tentò di capire che cosa
fosse successo. Qualcuno dall’interno di Nest House aveva colpito
con una grossa pietra il vetro della finestra da cui Jane aveva
sbirciato. Qualcuno che era dentro, non fuori. Improvvisamente sentì
la testa pesante, come se non riuscisse più a sorreggerla. Erano
appena arrivati e già non si sentiva al sicuro. Possibile che qualcuno
la stesse minacciando? E se quel qualcuno fosse proprio ciò da cui
stava fuggendo? Non era così impossibile. Qualcuno aveva potuto
seguirli in quel viaggio e ora minacciare la sua incolumità, tentando
di spaventarla, di minare la sua serenità, perseguitando le sue
azioni. Mantenne la lucidità, ma fu solo per brevi istanti. Corse verso
il casolare mentre gli occhi catturavano immagini che non riuscivano
a stare ferme e in quel gioco terribile anche il vento che si era
appena alzato pareva alimentare le paure più crudeli nel suo animo
ormai confuso, screziato di ombre. Quando lesse la scritta “Victor e
Victoria Asbury” si rese conto di essere finalmente arrivata al piccolo
casolare. Le voci delle piccole sgusciavano sotto la porta come la
più dolce delle melodie.
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