Il maestro dei santi pallidi – Marco Santagata

SINTESI DEL LIBRO:
A colori la sua Madonna era bellissima! Per poco Cinìn non si
mise a
piangere. Non spiccava dal fondo, non splendeva come quella di
Masolino, non aveva i fulgori di quella delle Braghe, ma gli sorrideva
come nessuna Madonna mai aveva sorriso. Aspettò con impazienza
che asciugasse, la portò nella stalla e la nascose sotto la paglia.
Quel giorno Cinìn si persuase di essere un pittore.
Da dove venga Cinìn, da quale di quei borghi annidati fra le
pieghe dell'Ap pennino modenese, nessuno lo sa. Il suo padrone, il
Massaro, dice di averlo comprato; forse dagli zingari. Quei po chi che
gli si rivolgono «come a un cri stiano» lo chiamano semplicemente
Ci nìn; gli altri Bastardìn o Bastardón. Tanto meglio, pensa Cinìn.
Perché del suo vero nome, Gennaro, lui si vergo gna: nessuno, da
quelle parti, si chiama così. Eppure (grazie ai decreti misterio si del
Caso, imperscrutabile divinità che presiederà a tutta la sua
esistenza), sarà proprio a causa di quell'insolito nome, e
dell'irrefrenabile desiderio di andare a vedere le «angiole» dipinte sul
muro di una chiesetta di campagna, che la vita di Cinìn prenderà una
direzione del tutto inaspettata. Dall'incontro con la bella ed
enigmatica contessa di Ren- no fino alla sconvolgente scoperta della
prospettiva, Cinìn attraverserà , con una sorta di stupito ma non
sprovveduto fervore, una serie di vicende che lo por teranno - lui, il
piccolo bastardo guar diano di mucche - a diventare il Mae stro dei
santi pallidi. Intrighi di potere, dame languide e per verse, preti divisi
fra ascetismo e amore del mondo: sullo sfondo dell'Italia di metÃ
Quattrocento, Marco Santagata ha raccontato il sorgere del talento
di un uomo sempre in fuga e sempre alla ricerca di qualcosa, capace
di desidera re la felicità e la morte con la stessa in tensità . Una
parabola umana e artistica nella quale si intrecciano felicemente
ricostruzione storica e invenzione.
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ISBN 88-8246-593-4 © 2003 Ugo Guanda Editore S.p.A., Viale
Solferino 28, Parma Quarta ristampa: gennaio 2004
MARCO SANTAGATA
IL MAESTRO DEI SANTI PALLIDI
UGO GUANDA EDITORE IN PARMA
Capitolo primo
Cinìn il bastardo, in procinto di impiccarsi a una quercia, ricorda il
giorno in cui per la
prima volta vide le figure, e come poi scampò ai mastini del
Massaro, conobbe un conte e un pievano e infine, sdraiato sul
pianale di un biroccio, entrò di notte nel castello di Renno.
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Seduto a cavalcioni di un ramo con la corda intorno al collo, Cinìn
guarda dall'alto lo stradello sottostante, e gli torna in mente che
proprio ai piedi di questa quer cia, dieci anni fa, i mastini del Massaro
stavano per az zannarlo.
Quella volta il Massaro gliel'aveva giurata. Se anche fosse stato li
non avrebbe fermato il mastino, ma, quant'è vero Iddio, avrebbe
aizzato gli altri cani e si sa rebbe goduto la scena di lui, Cinìn, che
annaspava per terra nel tentativo di rialzarsi. A ogni modo, nel mo-
mento in cui quel cane bavoso lo aveva addentato a un polpaccio il
Massaro non c'era: il suo cavallone nero non aveva retto il passo dei
mastini. Mentre lui, Cinìn, correva più veloce di una lepre. Ma dopo
un paio di mi glia non si sentiva più le gambe. Alla curva della pozza
era inciampato ed era stramazzato sotto la quercia.
Al ricordo di quell'avventura Cinìn quasi sorride. È il ricordo
dell'umiliazione che il Massaro fu costretto a subire a farlo sorridere.
Si scopre indulgente nei con fronti di quell'uomo cattivo. E passato
tanto tempo. E poi, se quella mattina non lo avesse inseguito con i
cani, lui sarebbe rimasto un servo: avrebbe consumato la sua vita fra
la stalla e il pascolo, a raccogliere merda e a prendere calci in culo.
Oddio, non che la libertà gli ab bia portato fortuna. A questo pensiero
Cinìn scoppia in una risata vera, rumorosa, a bocca aperta.
I
singhiozzi del gran ridere lo fanno sussultare e fini scono per
riscuoterlo dall'apatia nella quale è sprofon dato il giorno
precedente... Solleva gli occhi e davanti a sé, sul versante opposto,
vede la mole del Cimone. Ben ché il giugno sia inoltrato, sulla vetta
biancheggia anco ra uno spruzzo di neve. Il tempo è l'unico bene di
cui può ancora disporre. Perché non approfittarne e dare un'ultima
occhiata al mondo?
Con lo sguardo segue lo stradello che sale a serpenti na verso i
paesi sul crinale. A poca distanza da lì, ecco il castellotto della Riva:
alla sua sinistra, nascosta da una gobba, c'è la Cà del Comandante.
Più in alto svetta il campanile di Maserno; dal colle boscoso alle sue
spalle sbucano i merli della torre di Monteforte. In cima alla salita i
campanili di Salto e San Martino si stagliano contro il cielo. Poi gli
occhi di Cinìn perlustrano il co stone scendendo verso il basso, sino
al fondovalle, dove si indovina qualche ansa del Panaro. Risalgono
l'altro versante, di là dall'acqua. Cinìn riconosce Gaiato, Veri- ca,
Montecuccolo. Da qualche parte, dietro a quei monti, c'è Renno. Il
cono del Cimone domina le altre vette. In lontananza, verso la
Toscana, i monti disegna no un contorno azzurrino. Su quel fondale
rimpiccioli sce la fuga dei colli.
« E questa la prospettiva, somari che non siete altro. »
II grido gli è uscito spontaneo, liberatorio.
Sono i suoi posti, questi. O meglio, lo sarebbero, se lui fosse
radicato in qualche posto. Da quando si è mes so a guardarsi attorno
gli è tornato in mente Giulón, lo scemo che si arrampicava sui pagliai
per vedere dove fi niva il mondo. Appollaiato lassù, Giulón si batteva
la fronte con la mano e diceva che il mondo stava tutto lì dentro. Sta'
a vedere, pensa Cinìn, che aveva ragione lo scemo: e lui pure si
batte la fronte con il palmo della mano. Quel movimento per poco
non gli fa perdere l'e quilibrio. Ha un brivido di paura: certo che vuole
mori re, ma, per la madonna, il momento lo decide lui. Mori re per
caso, no. Troppi casi nella sua vita... Quando tra poco, all'inferno,
incontrerà il Monsignore, avrà mate ria per intavolare con lui una
discussione eterna. Gli sembra di sentirlo: « Il caso non esiste, la
nostra vita è nelle nostre mani». Be', nemmeno alla consumazione
dei secoli il Monsignore sarà riuscito a convincerlo. Il caso che lo
aveva fatto sfuggire ai denti del mastino avrebbe forse potuto essere
chiamato miracolo. Forse: perché se fosse stato un miracolo vero
adesso lui non sarebbe lì, con una corda intorno al collo, a cercare il
momento buono per buttarsi. Chissà poi perché ha de ciso di
impiccarsi alla quercia invece di annegarsi nella pozza intorno alla
quale curva lo stradello. Sarebbe sta to più semplice, persino più
sicuro. « Et cà z int la pòza, brót basterà , int la pòza » gli gridava
dietro il Massaro inseguendolo con in mano una frusta. «Et cà z int la
pòza», a ogni più piccolo incidente, per ogni minima mancanza.
Cinìn era sicuro che, se lo avesse preso, nel la pozza ce l'avrebbe
buttato per davvero. Ecco perché l'ha scartata. D'accordo, il Massaro
è morto, ma gli sembrerebbe di farlo felice da morto, quel bestione;
non gliela dà la soddisfazione di ammazzarsi in quel modo, e proprio
in quella pozza lì: dopo dieci anni sa rebbe come farsi sbranare dai
mastini.
Non aveva tutti i torti, il Massaro, se quella volta gliel'a-veva giurata.
Prima di allora a Cinìn non era mai capita to di perdere una bestia o
di rovinare un arnese. E due vacche morte in un sol colpo, doveva
ammettere, erano una bella perdita anche per uno ricco come il suo
pa drone. Cosa avesse spinto i lupi ad assalirle non era mai riuscito a
capirlo: nella stagione dei lavori i lupi non si avvicinavano alle case,
e
quel prato distava appena due cento piedi dalla CÃ del
Comandante. Fatto sta che le avevano ammazzate, e che lui non
era là a fare la guar dia. Era alla Riva, a vedere le figure.
Da più di un mese non sentiva parlare d'altro. Fra i bovari, i pastori, i
contadini, era un continuo discorrere di quella meraviglia. Quando
due si incontravano, in vece di darsi il buongiorno o la buonasera, si
chiedeva no: «L'e-t vèste? E-t piésne e' figur?» E giù commenti,
esclamazioni stupite, bestemmie di approvazione, per ché le figure
piacevano proprio a tutti. «La madòna, egh n'è ed ragazèle in
paradis.» «D'un dio! Par me un'anzla l'è abasta.» Gli angeli avevano
fatto colpo. Ra gazzone così belle da quelle parti non le avevano mai
viste. Non avevano mai visto nemmeno una pittura. Su quel versante
del Panaro le chiese, dentro, erano into nacate, ma nude. Al
massimo poteva esserci una qual che figura di sasso scolpita, fuori,
sulla porta. Per vede re una chiesa con figure dipinte quei contadini si
sareb bero dovuti spingere fino a Renno e Montecuccolo o,
addirittura, fino alla pianura. Ma da quei posti nessuno si muoveva,
tranne i ricchi, naturalmente. I ricchi rac contavano ciò che avevano
visto nei loro viaggi, ma non c'era gusto a sentire raccontare le
figure. Gli affreschi della Riva furono una novità straordinaria.
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