Il cappuccio del monaco – Ellis Peters

SINTESI DEL LIBRO:
Si era nell’anno 1138 della fruttifera incarnazione di Nostro Signore,
il
mese di dicembre era iniziato da poco, e il monaco erborista
fratello
Cadfael, quella particolare mattina, si accingeva a
presenziare al capitolo nella più perfetta pace della mente, disposto
a mostrare tolleranza perfino nei riguardi del modo noioso e pedante
in cui fratello Francis leggeva le scritture, nonché dei tortuosi
arzigogoli legali di fratello Benedict l’amministratore.
Questo perché, rifletteva, gli uomini erano ciascuno diverso
dall’altro, erano soggetti a commettere errori, e bisognava fare lo
sforzo di andargli incontro. E l’anno – che nei mesi precedenti era
stato così temporalesco nel clima e agitato negli eventi umani per
avere visto l’assedio, il massacro e la rivolta – prometteva di
terminare nella serenità e, Dio volendo, perfino nell’abbondanza.
I marosi della guerra civile tra re Stefano e i partigiani della regina
Maud si erano finalmente ritirati verso i confini sudoccidentali,
lasciando alla cittadina di Shrewsbury il tempo di riprendere
cautamente il fiato dopo l’errore di avere dato appoggio alla parte
soccombente, e dopo il tributo di sangue che per tale errore aveva
dovuto pagare.
Ma nonostante tutto quel che aveva impedito ai contadini di
lavorare la terra come si doveva, grazie a una splendida estate il
raccolto, per fortuna, era stato ricco, i granai erano pieni, i mugnai
indaffaratissimi, pecore e mucche pascolavano soddisfatte nei prati
ancora verdi e teneri, e il tempo si manteneva straordinariamente
buono, con solo qualche spolverata di brina verso l’alba.
Perciò, nessuno rabbrividiva ancora dal freddo, nessuno aveva
fame. La cosa, naturalmente, non poteva durare per molto, ma ogni
giorno in più era salutato da Cadfael come una particolare
benedizione divina.
Anche nel piccolo regno del monaco erborista il raccolto era stato
ricco e vario, e la capanna laboratorio nei giardini dell’abbazia era
piena di sacchetti di lino contenenti erbe medicinali messe a
seccare, gli scaffali erano pieni di giare di vino panciute e
soddisfatte, di vasi e bottigliette contenenti rimedi per tutti gli
acciacchi dell’inverno, dal raffreddore all’artrite, ai geloni e all’asma.
Tutto sommato, il mondo sembrava più ridente di quanto non
fosse apparso quella primavera, e quando la situazione finale è
migliore di quella iniziale, ragionava il monaco, non c’è che da
sentirsi soddisfatti.
Perciò fratello Cadfael raggiunse senza fretta il suo posto
preferito, opportunamente situato dietro una colonna, in un punto
poco illuminato della sala del capitolo, e sorvegliò con lo sguardo
benevolo di chi è mezzo addormentato i confratelli che entravano
alla spicciolata e che si dirigevano ai loro posti abituali.
Per primo l’abate Heribert, anziano, gentile e ansioso,
dolorosamente afflitto da tutte le tristi vicissitudini dell’anno che si
avviava alla conclusione; poi il priore Robert Pennant,
smisuratamente alto e patrizio, con il viso del color dell’avorio e con i
capelli e le sopracciglia di quello dell’argento, sempre ritto e
statuario, come se già si sentisse sulla testa la cosa da lui
maggiormente agognata: la mitra vescovile.
Diversamente dal suo superiore, Robert non era né vecchio né
fragile: era un cinquantunenne snello e robusto che non dimostrava i
suoi anni, anche se cercava di sembrare un patriarca santificato da
una vita di preghiere. Dieci anni prima, aveva lo stesso aspetto, e
certo
l’avrebbe mantenuto per i vent’anni di vita che,
presumibilmente, ancora lo attendevano.
Fedele come un cagnolino, alle calcagna di Pennant scivolò
immediatamente fratello Jerome, il suo segretario, il cui viso, come
un piccolo specchio fabbricato male, rifletteva sempre in modo
deformato e ingrandito la soddisfazione di Robert o, assai più
spesso, la sua irritazione.
Dopo questi tre, venivano tutti gli altri superiori dell’abbazia: il vice
priore, l’amministratore, l’ospedaliere, l’elemosiniere, l’infermiere, il
custode della cappella di Maria Santissima, l’economo, il capo
cantore e il precettore dei novizi. Con grande decoro si sedettero ai
loro posti per quello che prometteva di essere un capitolo
normalissimo, uguale a tutti gli altri.
Il giovane fratello Francis, che soffriva del doppio inconveniente di
avere il naso tappato e di conoscere poco il latino, trasformò in
un’alluvione la lettura dell’elenco dei santi da commemorare nelle
preghiere dei giorni seguenti, e combinò un pasticcio leggendo un
pio commento sul ministero dell’apostolo Andrea, che era il santo del
giorno precedente.
Poi fratello Benedict l’amministratore cercò di dimostrare che
toccava a lui, in quanto responsabile del mantenimento di chiesa e
abbazia, la parte del leone di un certo lascito destinato all’abbazia e
alle candele della cappella di Nostra Signora, questa di pertinenza di
fratello Maurice.
Il fratello cantore annunciò di avere ricevuto una nuova musica
per il Sanctus, dono del nobile che teneva l’autore al suo servizio,
ma a giudicare dalla poca convinzione con cui parlò di quel dono
generoso, non doveva essere molto convinto dei suoi meriti artistici;
era poco probabile che i monaci lo udissero cantare.
Fratello Paul, precettore dei novizi, denunciò uno dei suoi allievi,
sospettato di una leggerezza eccessiva, sia pure tenendo conto
della giovinezza e della mancanza di esperienza. Il giovane era stato
udito cantare, all’interno dei sacri precinti dell’abbazia, mentre era
occupato a copiare una preghiera di sant’Agostino, un canto
secolare dal contenuto scandaloso, spacciato per il laio o lamento di
un pellegrino cristiano al quale, proditoriamente imprigionato dai
saraceni, non restava altra consolazione che quella di stringersi al
petto la camicia donatagli dall’innamorata al momento della
partenza.
La mente di fratello Cadfael, benché pencolasse alquanto verso il
sonno, tornò bruscamente alla realtà e riconobbe il canto di cui si
parlava: una composizione molto bella e toccante. Il monaco
erborista aveva preso parte a quella crociata, conosceva la
Terrasanta, i saraceni, le luci e le ombre di quel tipo di prigione e di
quel dolore.
Ora notò che fratello Jerome chiudeva devotamente gli occhi e
faceva una smorfia nel sentir anche solo nominare un indumento
femminile così intimo come una camicia. Forse perché non ne aveva
mai toccata una, pensò Cadfael, che, almeno per il momento, era
ancora di disposizione caritatevole. Ma un brivido di costernazione
serpeggiò anche tra molti altri di quei vecchi e innocenti monaci per i
quali, essendo entrati nella vita claustrale nella prima giovinezza,
l’altra metà della creazione era un libro chiuso e proibito.
Cadfael fece lo sforzo di prendere la parola, cosa assai rara per
lui durante un capitolo, e chiese in tono blando come si fosse
scusato il ragazzo.
«Ha detto», rispose con onestà fratello Paul, «che ha imparato il
canto da suo nonno, il quale ha combattuto per la Croce alla
conquista di Gerusalemme, e che la musica gli è parsa talmente
bella da avere creduto che si trattasse di un inno sacro, anche
perché il pellegrino che si lamenta non è né un monaco né un
soldato, ma un’umile persona che ha compiuto per amore quel lungo
viaggio.»
«Un amore giusto e benedetto», commentò Cadfael, usando
termini che gli costarono un leggero sforzo, perché l’amore, per lui,
era una forza che si dava la benedizione da sola, e non aveva
bisogno di giustificazioni. «Ma c’è qualcosa, nelle parole di quel
canto, che suggerisca che la donna lasciata a casa dal pellegrino
non sia sua moglie? Non ricordo nulla a tal riguardo. E la musica è
davvero meritevole di lodi. Non rientra fra gli scopi del nostro ordine
quello di voler abolire il sacramento del matrimonio, o di criticarlo,
beninteso per coloro che non hanno ricevuto la vocazione al
celibato. Penso che il giovane non abbia commesso nulla di molto
grave. Anzi, non sarebbe preferibile che si occupasse di lui il fratello
cantore, per controllare se non ha una bella voce? In genere, coloro
che cantano durante il lavoro non fanno altro che sfogare il talento
che Dio gli ha dato.»
Il
cantore, preso alla sprovvista, e sempre a corto di allievi,
rispose che l’avrebbe ascoltato con interesse. Il priore Robert
aggrottò l’austero ciglio e storse il naso patrizio; se fosse dipeso da
lui, il giovane sarebbe stato punito con severità. Ma il precettore dei
novizi, che non era mai stato un fautore delle eccessive misure
disciplinari,
pareva soddisfatto del buon esito dato dalla
dimenticanza del giovane.
«Devo ammettere che si è sempre dimostrato volenteroso e
sincero, padre abate, e non è con noi da molto tempo. È facile
cadere in quel tipo di dimenticanza nei momenti di concentrazione, e
i suoi lavori di copiatura sono devoti e accurati.»
Così, il giovane se la cavò con una piccola penitenza che non
l’avrebbe fatto rimanere in ginocchio per un tempo sufficiente a
indolenzirgli le gambe. L’abate Heribert tendeva sempre alla
clemenza, e quel giorno pareva più preoccupato e pensieroso del
solito. Il capitolo era ormai giunto alla fine, e l’abate si alzò come per
dire la frase conclusiva.
«Ci sono alcuni documenti da firmare», intervenne fratello
Matthew l’economo, affrettandosi a mostrargli i suoi scartafacci,
perché gli pareva che l’abate stesse già pensando ad altro e
trascurasse i suoi impegni. «C’è la questione della fattoria di Hales e
del lascito di Walter Aylwin, e anche l’accordo di ospitalità per
Gervase Bonel, a cui abbiamo assegnato la prima casa dopo lo
stagno del mulino. Mastro Bonel vorrebbe trasferirsi il più presto
possibile, prima del Santo Natale...»
«Certo, certo, non me n’ero dimenticato», rispose l’abate Heribert.
Sembrava piccolo piccolo, dignitoso ma rassegnato, e teneva in
mano un rotolo di pergamena che doveva riguardarlo. Spiegò:
«Vi devo dare una notizia. Questi documenti non possono essere
firmati oggi, e per un buon motivo. Può darsi che non abbia più
l’autorità per farlo. Ho qui un ordine che mi è stato consegnato ieri.
Dalla corte reale di Westminster. Sapete che papa Innocenzo ha
appoggiato le rivendicazioni di re Stefano e in suo aiuto ha mandato
un proprio legato plenipotenziario, Alberico, cardinale di Ostia.
«Il cardinale propone di tenere un concilio a Londra per la riforma
della Chiesa e io debbo essere presente per giustificare la mia
condotta a capo di questa abbazia.
«Il significato è chiaro», proseguì Heribert, tristemente, «Il mio
incarico è a disposizione del legato. Negli scorsi mesi siamo stati
presi in mezzo, fra i due contendenti che rivendicavano il trono. Non
è un segreto, e lo riconosco anch’io, che sua Grazia, quando è stato
tra noi quest’estate, non mi ha accordato grandi favori, perché nella
confusione del momento non ho visto chiaramente la strada da
seguire, e sono stato lento ad accettare la sua sovranità.
«Perciò ora ritengo che la mia carica di abate sia sospesa, finché
il
legato pontificio non me l’avrà confermata, sempre che me la
confermi. Non posso ratificare nessun documento ufficiale. Quel che
è incompleto alla data odierna rimarrà incompleto finché non sarà
avvenuta la nomina. Non posso arrogarmi quella che potrebbe
essere l’autorità di un altro.
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