Il cielo può cadere – Quali criticità la rete globale satellitare sta dimostrando di avere e quali sono le sue fragilità – Massimiliano Nicolini

SINTESI DEL LIBRO:
Sull’aula di tribunale era calato il silenzio, mentre le parole del
giudice si perdevano nel basso ronzio che ottundeva le orecchie di
Max Rupert. Max allungò la mano verso il bicchiere d’acqua, un
contenitore di carta cerata poggiato sul corrimano del banco dei
testimoni. Era vuoto e leggero. Non ricordava di aver bevuto fino
all’ultima goccia. Si bloccò, il bicchiere a mezz’aria, incerto sul da
farsi. Fingere di prendere un sorso? Rimettere il bicchiere a posto?
E quella quiete, come era possibile in un’aula così affollata? Il
silenzio era talmente profondo che Max riusciva a sentire il sangue
pulsargli nelle orecchie, la rabbia che gli martellava i timpani,
provocandogli dei piccoli scatti fino alla punta delle dita. Si sforzò di
mantenere un’espressione impassibile. I giurati lo stavano
sicuramente osservando, mentre gli echi del controinterrogatorio
continuavano a risuonare nelle loro teste, insediandosi nei ricordi.
Guardami, Sanden, urlò Max tra sé, le parole che battevano come la
testa di un martello sull’acciaio. Guardami negli occhi, figlio di
puttana. Desiderava con tutto se stesso che l’avvocato sollevasse il
capo, ma Boady Sanden mantenne lo sguardo fisso sul blocco per
gli appunti accanto a sé.
Max trasse un respiro lento e impercettibile e cercò di rilassarsi.
Non voleva che la giuria si accorgesse delle emozioni che non
riusciva più a tenere a freno. Vide il bicchiere vuoto nella mano
alzata per metà. Per un attimo se n’era scordato. Lo sollevò di
qualche altro centimetro e lo inclinò, appurando che era vuoto, che
neanche una goccia gli sarebbe caduta sulla lingua riarsa. Finse
comunque di bere un sorso, poi depose con delicatezza il bicchiere
sul corrimano.
«Può andare, detective Rupert» disse il giudice Ransom. Rupert
colse una punta di durezza nella voce del giudice: il tono di chi è
costretto a ripetere due volte la stessa frase.
Max si alzò, prese il fascicolo e scese dal banco dei testimoni,
fissando i quattordici giurati mentre li oltrepassava. Solo uno, un
sostituto, ricambiò il suo sguardo. Sfilò davanti alle postazioni degli
avvocati squadrando Boady Sanden, l’avvocato difensore, il suo
amico… no, non il suo amico, non più.
Sanden mantenne lo sguardo fisso sul blocco per gli appunti
giallo. Finse di scribacchiare qualcosa, ma Max si accorse che la
penna compiva dei cerchi insignificanti sul margine della pagina.
Desiderava che Boady alzasse lo sguardo mentre gli passava
davanti. Desiderava comunicargli che erano stati superati dei limiti e
che il rapporto tra loro era definitivamente spezzato. Ma Boady
Sanden restò a testa bassa.
Max uscì dall’aula, sfregando l’unghia del pollice contro la piega
del fascicolo che teneva in mano. Trovò una sala colloqui vuota, uno
spazio delle dimensioni di una cella, in cui gli avvocati riempivano i
clienti di false speranze, una stanza dalle pareti intrise di
disperazione densa come il grasso nella cucina di un fast food.
Allargò le mani sul tavolo, il metallo freddo che gli gelava il sudore
sui palmi. Riuscì a far rallentare il battito del cuore, osservandosi le
dita scosse da un lieve tremore. Rabbia? Certo. Imbarazzo? Forse,
un po’. Ma in quel tremore c’era dell’altro, qualcosa che alterava il
suo equilibrio e somigliava molto al dubbio.
Erano mesi, ormai, che Max si portava dietro il caso Pruitt
ovunque andasse, con la sua immagine riflessa che lo scrutava dallo
specchio, il suo aroma che si diffondeva nell’aria che respirava, la
sua trama ruvida che gli cingeva le spalle come una coperta quando
si addormentava. Si era dedicato a quell’indagine con tutto se
stesso, l’aveva vivificata al punto da farne un presenza nel suo
mondo. Aveva avvertito quella presenza al suo fianco quando si era
seduto al banco dei testimoni. Quando si era rialzato, però, era solo.
Sanden l’aveva tritato per bene, aveva fatto credere che Max
avesse preso di mira Ben Pruitt sin dal primo momento, escludendo
qualsiasi altro indiziato. Era così?
Aprì il fascicolo e sfogliò i verbali, risalendo all’inizio, al giorno in
cui avevano rinvenuto il cadavere. Poi chiuse la cartella. Non aveva
bisogno degli appunti per tornare a quel mattino. Lo ricordava fin
troppo bene. Era un mattino guasto, squarciato dai ricordi che
tornavano puntualmente a fargli visita nell’anniversario della morte di
sua moglie.
2.
Quel giorno, l’ultimo venerdì di luglio, Max Rupert si svegliò ben
prima dell’alba. Aprì gli occhi e attese un istante prima di lasciare
che il sonno e la veglia si separassero nella sua mente. Un’ombra a
forma di croce fluttuava sulla parete accanto, proiettata dalla luce
gialla di un lampione che filtrava dai vetri della finestra. Fuori, il
condizionatore si accese con uno scatto, come se quello fosse un
giorno come un altro. Ma non lo era.
Max allungò la mano verso l’altro lato del letto, toccando le
lenzuola intatte, avvertendo il lieve rigonfiamento nel punto in cui il
materasso si era mantenuto inalterato nei quattro anni dell’assenza
di lei. Sfiorò il cotone soffice e sentì il dolore al petto salire e
scendere a ogni respiro.
Di solito era Jenni ad alzarsi per prima, un’allodola rispetto a lui,
che era un animale notturno. Aveva portato l’equilibrio nella vita di
Max, in tanti modi. Solo lei riusciva ad abbattere la sua corazza di
autocontrollo e portare alla luce la felicità infantile che lui teneva ben
nascosta. Max non aveva mai riso tanto come quando erano soli e
lei dava libero sfogo alla sua sagacia tagliente. E amava le cose
belle. Gli scaffali e la mensola del caminetto erano ancora pieni di
bambole di porcellana, candelieri d’argento e raffinati servizi da tè.
Lui aveva imparato a prendersi cura dei suoi fiori, i crisantemi che lei
aveva piantato davanti alla casa. Ricordava il primo anno in cui
erano fioriti, il desiderio che aveva provato di decapitarli con la
mazza da golf, come Bill Murray in Palla da golf. Non l’aveva fatto,
ovviamente. E ora, ogni anno, si occupava di quei fiori come aveva
fatto lei per tanto tempo.
C’erano volte, però, in cui loro due, anziché compensarsi, si
fondevano alla perfezione. Lei amava la pesca quanto lui. Entrambi
adoravano i film in bianco e nero e i popcorn burrosi. E a entrambi
piaceva starsene seduti in silenzio. A leggere libri, magari, o sul
dondolo del portico; non importava, fintanto che erano insieme.
A volte quei momenti di quiete ricordavano a Max il loro primo
appuntamento e il modo in cui si era innamorato di lei. Aveva ormai
dimenticato il ballo studentesco e la cena che l’aveva preceduto, ma
ricordava che lei era uno schianto. Ricordava come l’abito semplice
che indossava accentuasse la sua bellezza acqua e sapone: rugiada
che illumina una rosa. E di quella notte ricordava per filo e per segno
ciò che era successo dopo il ballo.
Erano andati a una festa a casa di un amico. Alcuni ragazzi
chiacchieravano, altri pomiciavano, altri ancora attraversavano il
guado tra relazioni in boccio e rotture. Ricordava che lui e Jenni si
erano seduti su un divano, colti dall’unico momento di silenzio
impacciato di tutta la serata. Lui teneva il braccio allungato dietro le
spalle di lei, la mano che penzolava nel vuoto. Desiderava baciarla.
Ma i pensieri incespicavano sulla parte logistica: come creare
un’occasione per il bacio, come farsi avanti, labbra aperte o chiuse.
Valutava come si sarebbe comportato se lei avesse ricambiato il
bacio o se, orrore, l’avesse respinto. Mai provata una simile
tensione.
Poi lei si era mossa, girandosi quanto bastava per posargli la testa
sulla spalla. Gli aveva messo la mano sul petto e aveva sospirato:
non il sospiro di una liceale stanca, ma quello di una giovane donna
felice di essere al mondo. Max aveva smesso di lambiccarsi il
cervello. Aveva lasciato perdere angolazioni, labbra e reazioni.
Desiderava soltanto tenerla tra le braccia. Aveva abbassato la mano
che penzolava fino a posargliela sul fianco, le dita che premevano
piano contro il cotone soffice dell’abito. In quel momento aveva
provato per lei un sentimento fino ad allora sconosciuto. Le aveva
baciato con dolcezza la sommità del capo e tanto era bastato.
Quante volte, nel corso degli anni, si erano seduti in quella stessa
posizione, cullandosi piano sul dondolo del portico, o sul divano,
davanti alla TV? Quante volte le aveva baciato la sommità del capo
dicendole che l’amava, ripromettendosi in un sussurro di proteggerla
sempre? Mai e poi mai avrebbe permesso che le accadesse
qualcosa di brutto.
Erano passati quattro anni dal giorno in cui era venuto meno a
quella promessa.
Il primo mattino in cui si era svegliato senza di lei era riuscito a
stento ad alzarsi dal letto, a strisciare verso l’armadio di Jenni e ad
avvolgersi nei suoi maglioni e nelle sue camicette, indumenti che
aveva indossato, indumenti da lavare il giorno in cui era morta. Si
era premuto il tessuto contro il viso e aveva inalato il profumo di lei
fino all’ultima lacrima, poi era tornato a barricarsi dietro la facciata di
solidità e sicurezza che ostentava con il resto del mondo. In quei
primi mesi era tornato più volte all’armadio, per ripetere quel rituale,
fino a quando l’odore sugli abiti di Jenni aveva ceduto alla polvere e
al declino del tempo.
Mentre i mesi diventavano anni, aveva trovato il modo di convivere
con la tristezza, ma non con il senso di colpa. Una foto alla parete, in
cui la moglie gli sorrideva, gli ricordava ogni giorno che per la morte
di Jenni non era mai stato trovato un colpevole. Il caso non era stato
affidato a lui. Il regolamento non lo consentiva. Lui era il marito, e il
marito non può seguire l’indagine. Le regole lo avevano tagliato fuori
e il pirata della strada l’aveva fatta franca.
Max si alzò, andò in bagno e si sciacquò il viso con l’acqua fredda.
Sapeva per esperienza che non sarebbe riuscito a riaddormentarsi.
Decise di andare a correre. Avrebbe percorso otto chilometri prima
che il sole si affacciasse all’orizzonte, otto chilometri in cui avrebbe
ascoltato il ritmo del proprio respiro, il tonfo dei piedi sul cemento e
nient’altro.
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