I misteri di Pittsburgh- Michael Chabon

SINTESI DEL LIBRO:

 L'ASCENSORE IN SALITA
All’inizio dell’estate andai a pranzo
con mio padre, il gangster, che era
venuto in città per il finesettimana a
sbrigare uno dei suoi vaghi impegni
di lavoro. Si era appena concluso un
periodo di freddezza e di silenzio fra
noi: un anno di amore e di
convivenza con una ragazza strana e
fragile che lui aveva odiato a prima
vista, con una audacia e una
veemenza che non gli appartenevano
affatto. Ma Claire se n’era andata il
mese prima. Né io né mio padre
sapevamo che fare della nostra
nuova libertà.
«Ho visto Lenny Stern
stamattina» disse lui. «Ha chiesto di
te. Ti ricordi di zio Lenny, vero?»
«Certo» risposi, e per un attimo
ripensai allo zio Lenny che faceva il
giocoliere con tre mezzi panini nel
retro del suo negozietto a Hill
District, un milione d’anni prima.
Ero nervoso e bevvi più di quanto
mangiai; mio padre liquidò
velocemente tutta la sua bistecca.
Poi mi domandò quali fossero i miei
programmi per l’estate, e io,
nell’ebbrezza di una forte emozione
o di qualcosa del genere, dissi, più o
meno: È l’inizio dell’estate ed
eccomi qui nell’atrio di un grande
albergo alto mille piani, dove una
batteria di ascensori lunga un
chilometro e un’interminabile scia
rossa di inservienti in uniformi
gallonate mi aspettano per portarmi
su, su, su, in alto, fra gli
appartamenti di conquistatori, spie e
attricette, davanti all’ormeggio dello
zeppelin sul tetto art déco dove
tengono ancorato l’enorme dirigibile
d’agosto, sferzato dai venti.
Sfrecciando verso l’ago scintillante
della cima, indosserò un mucchio di
cravatte, mi comprerò cinque o sei
capolavori a 45 giri al minuto e forse
troppo spesso mi ritroverò a
guardare il bordo rosicchiato di una
fettina di limone in fondo a un
bicchiere vuoto. Dissi: «Prevedo una
stagione di tempo perso e di donne
incasinate».
Mio padre mi rispose che ero
sovreccitato e che Claire aveva
avuto un’influenza negativa sul mio
modo di esprimermi, tuttavia
qualcosa nel suo viso indicava che
aveva capito. Quella sera ritornò a
Washington, e il giorno dopo, per la
prima volta dopo anni, scorsi la
cronaca nera alla ricerca di qualche
lurido resoconto del suo passaggio
in città. Naturalmente non ne trovai.
Lui non era quel tipo di gangster.
Claire se n’era andata il tredici
aprile, portandosi via tutti i dischi di
Joni Mitchell e i quattro LP con la
registrazione completa dei dialoghi
di Romeo e Giulietta di Zeffirelli,
che lei conosceva a memoria. Verso
il finale senza sesso e dialogo di Art
e Claire, l’avevo informata che
secondo mio padre lei soffriva di
demenza precoce. Mio padre aveva
una grande influenza su di me, e io
credevo che avesse ragione. In
seguito, raccontai alla gente che
avevo vissuto con una pazza, e che
ne avevo avuto abbastanza di Romeo
e Giulietta.
L’ultimo trimestre del mio ultimo
anno al college si concluse con un
bombardamento di esami di una
settimana, e con una serie di
colloqui etilici e sentimentali con
professori che intuivo, nel momento
stesso in cui ci scambiavamo strette
di mano e brindisi a base di birra,
non mi sarebbero mancati. C’era
però ancora un’ultima tesina sulle
lettere di Freud a Wilhelm Fliess,
per la quale, mi resi conto, avrei
dovuto passare un’ultima
esasperante giornata in biblioteca,
l’epicentro cruciale della mia
istruzione, il nocciolo bianco e
silenzioso di ogni vuota domenica
trascorsa nel tentativo di cogliere il
fascino inafferrabile dello studio
dell’Economia, la tetra e
malinconica materia in cui mi stavo
laureando.

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