I colori delle stelle – L’avventura di Van Gogh e Gauguin – Marco Goldin

SINTESI DEL LIBRO:
Era l’ultima immagine che aveva di sé a Parigi, nel suo piccolo
appartamento. Rue Lecourbe. Alle prime piogge, l’acqua correva lungo i
muri e un brivido bruciava l’aria. L’ultima immagine, la mano di lei che
batte sulla porta. Perché si è subito stanchi di attendere una voce che
risponda a un’altra voce, senza sentire, senza ascoltare. Si è subito stanchi,
se l’ora è tarda per chiedere ancora, per implorare ancora. Stanchi se viene
il buio e non si sa quale strada prendere.
Era rimasto in ospedale un mese intero e si disperava nelle avversità
quotidiane. La fama come pittore cresceva, eppure passava giorni interi
senza avere i soldi per mangiare, e gli sembrava di spendere tutta la sua
forza per stare al mondo in quell’angolo umido di vita e di sogni consumati.
Aveva deciso di partire, la sola cosa che era sicuro di voler fare. Lasciare
Parigi e tutta quella miseria. Lui che aveva abbandonato la famiglia, o ne
era stato abbandonato, non si sarebbe potuto dire con certezza. Lui che non
aveva un soldo in tasca, che a malapena poteva pagarsi il passaggio in nave
dalla Francia fino in America. Lui che aveva tutto questo, cioè niente. Lui
che non sapeva cosa avrebbe fatto in America, se non desiderare di vivere
come un selvaggio, in completa libertà, ascoltando il canto degli uccelli e il
rumore del mare.
All’inizio di aprile, Mette era venuta a cercare Clovis e se l’era riportato
a Copenaghen, assieme ad alcuni quadri, riuniti in un baule, che lui aveva
dipinto negli ultimi anni tra la Bretagna e la città. Tra i boschi e i ruscelli,
tra le strade e i bordelli. C’era sempre luce, anche quando veniva notte e si
vedevano le stelle. C’era sempre luce, una luce un po’ malata che entrava
come uno spiffero di vento nella sua casa con le finestre sporche e da
qualche parte, nelle stanze, si poteva incontrare l’odore del grano tagliato,
sopra al mare di Pont-Aven. Il mare e l’infinito orizzonte. Si poteva
incontrare, in quelle stanze umide, l’azzurro del cielo, sparso di qualche
nuvola. Il bianco.
Così quando Mette se n’era andata con Clovis, tornando verso il Paese
candido delle nevi, con quel baule pesante colmo delle sue tele e delle sue
pene, lui aveva deciso che sarebbe stato proprio quello il momento di
partire. Non poteva aspettare di più. Dunque aveva preso un treno, assieme
al suo giovane amico Charles Laval, per coprire i quasi cinquecento
chilometri che li separavano dalla costa dell’oceano, fino al porto di Saint
Nazaire, nel punto in cui la Bretagna cede il posto alla Loira Atlantica. La
Bretagna che amava, dei campi fioriti e le trine del mattino e l’acqua del
mare, dove nelle notti di luna il bianco si specchia e galleggia sul buio
dell’ignoto. Da averne paura.
Da quel porto, che fino a pochi anni prima era stato solo dei pescatori, e
di barche e di uomini che si lanciavano tra loro le grida più colorate,
partivano adesso le grandi navi. Navi che in tre settimane collegavano la
Francia al Messico e a Panama, sostando alle Antille e ai Caraibi. Paul
aveva lasciato Parigi in primavera, pochi quadri alle spalle nell’ultimo
inverno, dopo il ritorno dalla Bretagna. Troppa povertà, troppa sofferenza, e
nessuna forza di vita. Aveva lasciato Parigi dopo avere dipinto certe figure e
fiori, e donne in cerchio a danzare e a bagnarsi in una pozza d’acqua che
rifletteva il rosso dei capelli.
E c’era chi diceva che il pittore, abbandonando la città, avesse in mente
Degas. E c’era chi diceva che questa fosse la verità, e questo il ricordo con
cui partire. Questo e poco altro. Nemmeno una moneta nelle tasche. Sguardi
e silenzi, atmosfere sospese. Rossi, verdi, gialli e azzurri a ricamare il
mondo e la sua anima. Già, l’anima, pensava. Quella che avrebbe voluto
incontrare, mentre andava, mentre sulla nave fumava forte il vapore
staccandosi dalla banchina e dal dolore, quando le macchine gonfiavano il
petto a portare tutta quella gente dall’altra parte del mondo. E a lui sarebbe
venuto da dire, anche dall’altra parte del tempo.
Era poco prima di sera, era d’aprile. Il porto si allontanava sempre di più
e l’acqua gli veniva incontro nella calma del mare, piccole onde come un
tuono leggero, come un vento mite e docile. Era venuta la notte, Laval era
in cabina, una cabina di terza classe a buon mercato, divisa con tanti altri
perché di meglio proprio non c’era. Lui invece era rimasto sul ponte della
nave, l’aria era fredda ormai perché la primavera era appena cominciata e
l’inverno appena passato. Aveva trovato un angolo da cui si vedevano bene
le stelle in alto nel cielo, riparato dal vento della notte che da qualche parte
arrivava. E seguiva, muovendo il suo corpo piano, ritmicamente,
l’ondeggiare della nave, il suo flettersi in avanti, sprofondando e poi
risalendo la corrente. E facendo questo movimento, senza che nessuno lo
vedesse, cominciava a ricordare e a sognare.
Il fiorire dei fiori, il loro bianco, l’apparire del grano verde che diventava
messe dorata. E la voglia di dipingere tutto questo, e il suono e il profumo, e
l’appartenere al mondo e alla vita, al loro mistero. E avere voglia di
piangere, proprio così, perché si sentiva perso dentro tutta quell’immensità,
nel grande abbraccio che il tempo gli concedeva, dal momento della sua
origine. Una rossa ghirlanda appena sotto quel cielo notturno abitato dalle
stelle.
E vedere nel cielo una mano tendersi come una cometa. La mano
dell’amore, capelli del color dell’oro sparsi nello spazio infinito. E
sciogliersi come strade che lui non sapeva verso dove potessero condurre. E
allora cercava ogni sentiero, tutti li percorreva, uno a uno, perché almeno
l’ultimo potesse portare là dove desiderava. E il porto fosse nient’altro che
il segno di due occhi chiari del color del cielo nel primo mattino. Quando
tutto, pensava in quella sera sul mare al principio del viaggio, poteva essere
un annuncio di felicità: «Sì, incontrerò l’universo e quanto contiene, ne sarò
rapito. So che mi prenderà l’amore come mai l’ho vissuto finora. Sento tutto
questo mentre mi sto per addormentare sul mare che mi accompagna e mi
conduce lontano».
Ma il sonno non veniva ed era come un lieve stato di febbre, che non lo
abbandonava mai. La notte saliva nel suo buio, la nave sempre più al largo,
e lui sentiva quell’immensità che cresceva attorno e dentro. Non c’era modo
di essere altrove e gli venivano senza sosta immagini e suoni dal suo
passato, che altro non era se non quei quasi quarant’anni di vita trascorsa a
lungo proprio sul mare. Immagini e soprattutto suoni e silenzi, e talvolta
odori che ti cercano da un angolo misterioso del tuo tempo, si insinuano,
fino a stordirti e a prenderti in una malinconia che appare senza soluzioni.
Quando qualcuno se ne va, e non torna più. E quello che rimane è solo la
scia di un profumo che a volte, una sera, ti sorprende nell’aria. E non eri
preparato.
Aveva solo un anno quando si trovò sulla prima nave della sua vita, e
dunque non poteva dire di averne ricordi. E di quella nave, su quello stesso,
grande mare sopra il quale stava filando adesso, ricordava solo un grande
trambusto, un rumore di persone che si affaccendavano attorno a qualcosa
che sua madre, tempo dopo, gli disse essere stato il corpo di suo padre,
morto durante la traversata verso il Perù. Così, sotto le stelle di quel cielo
nel quale si era affacciata da poco la luna, pensava a suo padre, Pierre
Guillaume Clovis Gauguin, redattore del «National» a Parigi. Non l’aveva
mai conosciuto, perché un bambino di un anno non può dire di avere ricordi
di un padre che muore e viene lanciato, avvolto in un telo bianco,
nell’acqua scura come la pece dell’oceano. No, non può dirlo, anche se poi
ti raccontano che ti ha tenuto in braccio e tu allora vai indietro nel tempo e
frughi, frughi fino a che viene fuori non un volto ma un rumore. Il rumore
dell’acqua che accoglie un corpo che come una pietra cade. E tu non lo
rivedrai più, non l’hai visto mai.
Gli sembrava che quello, a bordo del piroscafo Canada, in viaggio verso
Panama, fosse il momento giusto per fare il punto sulla sua vita. E, del
resto, per questo era partito. In verità non c’era molto altro da fare, se non
guardare il mare, a lungo verso l’infinito, perché le tele e i colori che aveva
portato con sé li voleva riservare per quando lui e Laval sarebbero arrivati e
dunque sarebbe cominciata per davvero la sua avventura di pittore in
America. Vedeva già i titoli nei giornali di Parigi: Il pittore Paul Gauguin
scopre l’America, tra selvaggi e paesaggi. Gli piaceva anche la rima, e
sorrideva.
Si prevedevano tre settimane di navigazione e dunque c’era tutto il tempo
per tornare indietro nel tempo. Non mancava nulla, lì sul ponte della nave,
in un angolo, la schiena appoggiata, un quaderno per prendere qualche
appunto, un rigo appena. Un piccolo disegno ogni tanto, la sua amata
Bretagna, le donne contro la luce e il vento. Tutto veniva nella memoria. Il
buio che lo cullava e lui che piano diceva tra sé: «Vorrei che questa notte
non finisse mai, per addormentarmi in braccio alle stelle e trovarmi su quel
mare sopra il quale si possono incontrare tutti quelli che ci hanno lasciato.
Oh, madre, dove sei più anche tu? Dio, fa’ che questa notte non passi e io
possa risentire il suo profumo e prendere la giusta direzione. Da qualche
parte, tra qui e il sole, quando verrà». E si rivolgeva a Dio, anche se non lo
aveva mai granché interessato. Ma l’immenso è l’immenso quando ci stai in
mezzo, e lui era sempre stato un uomo di mare. E nell’immenso, tu lo sai,
vengono i volti che si sono fatti un’assenza. I volti che cerchi nelle notti e
piangi.
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