I figli dell’imperatore – Claire Messud

SINTESI DEL LIBRO:
«Carissimi! Benvenuti! Tu devi essere Danielle, giusto?» Piccola e
aggraziata, con i grandi occhi resi enormi dal kohl, Lucy Leverett, malgrado
la somiglianza con un cucciolo di foca, aveva la voce straordinariamente
aspra. I lunghi orecchini a ventaglio le tintinnarono sul collo mentre si
protendeva a baciare tutti, Danielle compresa, e benché avesse allungato il
braccio per tenere lontana la sigaretta infilata nel bocchino di madreperla, il
fumo si sparse e fece lacrimare gli occhi di Danielle.
Danielle non se li asciugò, per paura di rovinarsi il trucco. Dopo aver
trascorso mezz’ora a imbellettarsi davanti allo specchio opaco nel bagno di
Moira e John, individuando le proprie imperfezioni e applicando palate di
fondotinta – per nascondere le borse bluastre che appesantivano gli occhi
stanchi a forma di oliva, l’arco delle narici stranamente arrossato e le
spellature sulla fronte alta – non aveva alcuna intenzione di rivelare a quegli
sconosciuti la disintegrazione in atto sotto il maquillage.
«Entrate, carissimi, entrate». Lucy si piazzò alle spalle del terzetto e lo
spinse verso gli altri invitati. Il soggiorno dei Leverett era dipinto di viola
scuro – color melanzana, per la precisione – con tende di velluto alle finestre.
Dal soffitto pendeva un grezzo lampadario di ferro battuto che sembrava
recuperato da un castello medievale. Tre uomini indugiavano davanti al
bovindo, chiacchierando e guardando la strada, con i bicchieri di vino rosso
illuminati dalla luce riflessa della sera. Un’intera parete era occupata da un
lungo divano, ben imbottito e cosparso di cuscini, sopra il quale quattro
donne erano disposte come odalische in un harem. Due sedevano alle
estremità opposte, con le gambe piegate sotto di sé e le braccia allungate ad
accarezzare i cuscini, e in mezzo a loro un’altra, sdraiata, posava la testa in
grembo a un’amica, che le accarezzava la folta chioma mentre lei, sorridendo,
mormorava qualcosa a occhi chiusi. L’intera scena produsse su Danielle un
effetto vagamente nebuloso, come se fosse entrata nel sogno di qualcun altro.
Quella sensazione la seguiva ovunque, a Sydney, così lontano da casa: non
poteva dire che non fosse reale, ma quella non era di sicuro la sua realtà.
«Rog? Rog, porta dell’altro vino!» gridò Lucy, girandosi verso i recessi
della casa; poi tornò a rivolgersi agli ospiti, toccando il bicipite di Danielle
con aria da padrona. «Rosso o bianco? Probabilmente ha anche il rosé, se vi
piace. Io non lo sopporto, fa tanto California». Sorrise, e dalle zampe di
gallina Danielle dedusse che doveva avere circa quarant’anni.
Due uomini uscirono con alcune bottiglie in mano dalla sala da pranzo
fiocamente illuminata dalle candele, entrambi snelli, entrambi a prima vista
un po’ stravaganti. Danielle immaginò che il primo dei due, quello dall’aria
solenne, con la camicia color lavanda ben stirata e gli occhi socchiusi
sovrastati da una fronte alta e liscia come quella di Nabokov, fosse il padrone
di casa. Gli tese la mano. «Mi chiamo Danielle». La mano dell’uomo aveva
dita eleganti e il palmo fresco.
«Ah, davvero?» rispose.
Alle sue spalle spuntò l’altro uomo, di circa dieci anni più vecchio, con il
pizzetto e i denti un po’ sporgenti. «Piacere, Roger» disse. «Lieto di
conoscerti. Non fare caso a Ludo, sta facendo il prezioso».
«Ludovic Seeley» intervenne Lucy. «Danielle...»
«Minkoff».
«L’amica di John e Moira. Di New York».
«New York» ripeté Ludovic Seeley. «Dove andrò a vivere il mese
prossimo».
«Rosso o bianco?» chiese Roger, la cui camicia aperta rivelava un petto
abbronzato cosparso di radi peli grigi e solcato da una sottile catena d’oro.
«Rosso, grazie».
«Ottima scelta» disse Seeley, quasi in un sussurro. La stava squadrando da
capo a piedi: Danielle lo sentiva più che vederlo, perché i suoi occhi
socchiusi rimanevano perfettamente immobili. Sperò che il fondotinta fosse
ben steso, che nessun grumo di cipria si fosse formato sul mento o sulle
guance.
Lo riconobbe immediatamente. Proprio lì, in quella enclave bizzarra e
irrilevante, aveva individuato un volto familiare. Si chiese se anche lui
avvertisse l’importanza di quel momento. Ludovic Seeley: Danielle non
sapeva chi fosse, eppure le sembrava di conoscerlo, o di averlo atteso. Non
era solo l’aspetto fisico, il corpo lungo e flessuoso da felino, l’atteggiamento
allo stesso tempo sciolto e controllato, come se giocasse con un’illusione di
scioltezza. E non era nemmeno il timbro della voce, profonda ma non
particolarmente sonora, con un accento australiano così leggero da sembrare
quasi britannico. Era, decise Danielle, qualcosa nella sua faccia: quell’uomo
sapeva. Che cosa sapesse, però, Danielle non riusciva a immaginarlo.
C’erano gli occhi, di un grigio sorprendente, intenso e cosparso di pagliuzze
dorate, leggermente piegati all’ingiù in un’espressione dolente e al contempo
divertita; e quella particolare, piccola grinza che gli si formava sulla guancia
destra a ogni minimo accenno di sorriso. Le orecchie molto aderenti alla testa
gli davano un aspetto ordinato; e i capelli scuri, tagliati così corti da lasciar
intravedere il luccichio azzurrino del cuoio capelluto, mettevano in risalto la
sua ironia ma anche il suo riserbo. Aveva la pelle chiara, quasi come quella di
Danielle, e il naso sottile, un lembo di cartilagine appuntita. Quel volto così
caratteristico poteva sembrare un ritratto del xix secolo, un Sargent, magari,
una personificazione della saggezza beffarda, della raffinatezza aristocratica
dell’alta società. Eppure il taglio della camicia, i contorni del busto, i
movimenti eleganti ma non effeminati delle dita sottili (e sì, aveva dei peli,
discreti ma ben visibili, sul dorso delle mani. Danielle la considerava una
qualità necessaria: l’uomo non deve essere glabro), appartenevano senz’altro
al presente. Forse, semplicemente, Ludovic Seeley sapeva quello che voleva.
«Vieni, cara» Lucy la prese per il gomito, «ti presento al resto del
gruppo».
Quella serata, con la cena dai Leverett, era l’ultima che Danielle passava a
Sydney prima di tornare a casa. Il mattino dopo sarebbe salita sull’aereo e
avrebbe dormito, dormito per tutto il viaggio fino alla New York di ieri, anzi,
di oggi, visto che sarebbe partita l’indomani. Era stata via una settimana, per
fare una ricerca su un possibile programma televisivo con l’aiuto dell’amica
Moira. L’avrebbero girato solo mesi dopo, sempre che decidessero di girarlo:
un programma sul rapporto fra gli aborigeni e il governo, le scuse formali e le
riparazioni degli ultimi anni. L’idea era quella di indagare sulla possibilità di
risarcimenti agli afroamericani – un importante professore universitario stava
per pubblicare un libro sull’argomento – vista attraverso il prisma della realtà
australiana. Neppure Danielle era sicura che potesse funzionare. Al pubblico
americano importava qualcosa degli aborigeni? Le due situazioni erano
almeno paragonabili? La settimana era stata piena di incontri e discorsi vuoti,
le conversazioni infervorate e melliflue tipiche del suo lavoro, l’ostentazione
di sicurezza quando in realtà non si era sicuri di nulla. Moira credeva
fermamente che
si potesse fare, che si dovesse fare; ma Danielle non era convinta.
Sydney era molto lontana da casa. Per una settimana, in preda a una
piacevole ed effimera sensazione di estraneità, Danielle si era concessa di
fantasticare sulla possibilità di un’altra vita – Moira, dopotutto, aveva lasciato
New York per Sydney appena due anni prima – e quindi di un altro futuro.
Non pensava quasi mai di poter vivere altrove; così come, rifletteva con
leggera incredulità, la maggior parte delle persone non pensava di poter
vivere a New York. Dalla stanza che occupava nella leziosa villetta dal tetto
di lamiera dei suoi amici, in fondo a una strada ombreggiata nel sobborgo di
Balmain, Danielle vedeva l’acqua. Non l’ampia distesa della baia, con l’arco
del ponte, e neppure le ali di gabbiano arruffate del teatro dell’Opera, bensì
un placido tratto di azzurro, giù in fondo, oltre il parco, increspato dalla scia
di qualche sporadico traghetto e scintillante nella luce del tardo pomeriggio.
A Sydney era appena cominciato l’autunno; a casa faceva ancora freddo.
Piccoli uccelli variopinti si radunavano sugli alberi di jacaranda e trillavano
in gioiosa disarmonia. All’alba aveva scorto, davanti a un cespuglio del
giardino screziato dai primi raggi del sole, un’enorme ragnatela bagnata di
rugiada, uno sfavillante intrico di fili sull’orlo del quale era sospeso,
immobile, un enorme ragno peloso. Laggiù la natura arrivava fin dentro la
città. Era un altro mondo. Danielle aveva immaginato di guardare il 747
levarsi in volo senza di lei: l’inizio di una nuova vita.
Ma non ci aveva pensato sul serio. Era un’autentica newyorchese. Per lei,
Danielle Minkoff, esisteva soltanto New York. Il suo lavoro era là, i suoi
amici erano là – persino gli ex compagni della Brown University, remote
conoscenze che risalivano a dieci anni prima, erano là – e lei aveva scelto di
vivere nella comodità cacofonica e accogliente del Village. Dal suo
monolocale nell’alto palazzo di mattoni sbiancati all’incrocio tra Sixth
Avenue e Twelfth Street, contemplava Lower Manhattan come un capitano
dalla prua della nave. Malgrado a volte si sentisse povera e assediata, o
desiderasse ardentemente un’interruzione in quel mare di ferro e asfalto, un
silenzio in quella marea di chiacchiere, non riusciva a immaginare di
rinunciarvi. Ogni tanto diceva per scherzo a sua madre – cresciuta come lei a
Columbus, nell’Ohio, e ora residente in Florida – che sarebbe andata via solo
a piedi in avanti. Non esisteva un altro posto come New York. E al confronto
l’Australia era, come dicevano gli australiani stessi, il paese di Oz.
Quell’ultima cena a Sydney era un’occasione puramente mondana. I
Leverett vivevano in una zona dove forse si poteva ancora trovare qualche
aborigeno non assimilato, logoro e canuto, davanti al pub in fondo alla via:
gente dalla bottiglia facile, che non aveva accettato le scuse del governo ed
era andata avanti per la propria strada. O forse no, forse Danielle stava solo
immaginando quella zona e i suoi abitanti com’erano un tempo: perché le era
bastata una seconda occhiata alle Bmw e alle Audi parcheggiate lungo il
marciapiede per capire che la nuova Sydney (un po’ come la nuova New
York) si era già insinuata anche lì, e con una certa solerzia.
Moira era amica di Lucy Leverett, che possedeva una piccola ma
importante galleria specializzata in arte aborigena a The Rocks. Suo marito
Roger era uno scrittore. Come aveva spiegato Moira mentre John
parcheggiava davanti alla grande villa vittoriana dei Leverett, «Lucy è
fantastica. È molto attiva nella scena artistica locale. E se vuoi incontrare
artisti aborigeni, parlare con loro per il video, Lucy fa proprio al caso tuo».
«E lui?»
«Be’» aveva risposto John con una smorfia afflitta, «i suoi romanzi sono
penosi...»
«Ma noi gli vogliamo bene lo stesso» aveva concluso recisamente Moira.
«Ha un ottimo gusto in fatto di vini, questo glielo concedo».
«Roger è una persona squisita» aveva insistito Moira. «E anche se John ha
ragione sui suoi libri, qui a Sydney è molto influente. Potrebbe davvero
aiutarti, se avessi bisogno di lui».
«Roger Leverett?» Danielle aveva riflettuto per qualche istante. «Mai
sentito nominare».
«Non mi sorprende».
«Un po’ come “il nostro chef è molto famoso a Londra”».
«E cioè?»
«Nell’East Village c’è un piccolo e sudicio ristorante cinese con un
cartello scritto a mano nella vetrina, sporca anche quella, che dice il nostro
chef è molto famoso a Londra. Ma non a New York, o in qualunque altro
posto al di fuori di Londra».
«E probabilmente nemmeno a Londra, eh?» aveva detto John, mentre si
avvicinavano alla porta dei Leverett.
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