Sangue e limonata- Hap & Leonard – Joe R. Lansdale

SINTESI DEL LIBRO:
Leonard alzò gli occhi dal giornale che stava leggendo – uno straccetto,
tutto quel che restava del nostro quotidiano cittadino, che era ormai quasi
interamente online – e mi guardò.– Da quanto leggo tutte le scuole, superiori, medie, addirittura le
elementari, cavolo, puniscono qualunque scontro fisico, indipendentemente
da chi sia stato a cominciare. In altre parole, un tizio ti salta addosso mentre
stai giocando in cortile, in pausa pranzo, quando capita, insomma, tu gli molli
un cazzotto sul naso perché ti lasci in pace e venite sospesi tutti e due.– Non si può permettere a due ragazzini di fare a botte. A me e a te è
capitato troppo spesso. Forse non è una buona cosa, imparare a menare le
mani. Noi due ci siamo conosciuti durante una rissa, ricordi?– Stronzate, – disse Leonard, posando il giornale. – Stammi a sentire. Io
un paio di cosette su di te le so. E so anche come me la passavo a scuola, con
l’integrazione razziale e tutto il resto. Be’, non credo che le cose debbano
andare in questo modo, e non lo troverei giusto. Fai a botte per proteggerti,
becchi la stessa punizione del tipo che ti ha messo le mani addosso e questo
dovrebbe insegnarti a stare al mondo?– E allora come dovrebbero andare le cose, Leonard?– Pensaci. C’è una cosa che so su di te, e la chiamerò la parabola del
bastone.
Sapevo perfettamente di cosa stava parlando, perciò risposi: – D’accordo.
Chiamiamola pure cosí.– Ti sei trasferito qui da una scuola piú piccola, e so che hai avuto qualche
problema. Ne abbiamo già parlato. Non c’ero, a quei tempi, ma conosco
l’andazzo. Provaci tu, a essere nero e a frequentare una ex scuola per soli
bianchi.– Potrei provare a essere nero, – risposi, – ma resterei comunque bianco.– Sei venuto qui a Marvel Creek da un paesino piú piccolo. E c’era un
bullo, uno stronzo in piena regola, molto piú grosso di te. Tu eri un piccoletto
a quei tempi, giusto?– Non che sia diventato un gigante.– In effetti no. Non hai il mio fisico virile, ma sei comunque bello robusto.
A quei tempi, però, eri un ragazzino pelle e ossa, soffrivi di asma e avevi tutte
le intenzioni di diventare qualcuno, da grande. In questo, ovviamente, hai
fallito. Che mestiere pensavi di fare, a proposito?– Non lo so. Ero convinto di voler diventare uno scrittore.– Ah, ma certo. Cavolo, lo sapevo già. Me lo hai detto tanto tempo fa e lo
avevo dimenticato. Uno scrittore, ovvio. E cosí ti trasferisci da queste parti,
sei un povero ragazzino di campagna, vestito di merda e con il naso ficcato in
un libro, e questo tizio grande e grosso ti prende di mira. Lo fa tutti i giorni.
Ti chiama topo di biblioteca, o magari scribacchino. E tu cosa fai a quel
punto? L’unica cosa giusta da fare. Vai dal preside e gli dici che quel tizio fa
lo stronzo con te, e il preside ti risponde che ha capito, dopodiché convoca il
bulletto e gli parla. A quel punto, cosa fa il giorno dopo, quel pezzetto di
merda?– Rincara la dose, ovviamente. E mi dà un fracco di legnate.– Esatto. Ma tu non reagisci, giusto?– Oh, in realtà ci ho provato, a reagire, ma non ero granché quando si
trattava di menare le mani. Probabilmente è per questo che sono andato a
scuola di arti marziali.– Certo. Ho fatto la stessa cosa anche io. Non ero un piccoletto come te e
raramente le prendevo, ma come ti ho già detto ero un ragazzino nero in una
scuola che fino a pochi anni prima era stata per soli bianchi, senza contare
che erano tutti gelosi della mia straordinaria bellezza.– Per non parlare del pisello extralarge.– Ah, già, l’anaconda nero che non conosce amici. E insomma, capita la
stessa cosa per diversi giorni di fila, ed è chiaro che quel bulletto bastardo ha
deciso di ignorare l’invito del preside; per la precisione, non gliene frega un
cazzo di niente. Torni a casa e tuo padre si accorge che hai un occhio nero e il
labbro gonfio, e a quel punto che cosa fa?– Ti spiega che se devi vedertela con qualcuno che è molto piú grosso di
te, non ti resta che dargli una bella ridimensionata.– Proprio cosí. Ti dice: «Hap, esci e procurati un bel bastone. Ce ne sono
in abbondanza intorno al parco giochi, vicino al bosco. Prendine uno bello
grosso, tieni d’occhio lo stronzo e quando meno se lo aspetta dagli una bella
legnata, con tutte le tue forze, staccando quasi le gambe da terra. Non
cavargli un occhio e non colpirlo alla testa se non ci sei costretto, ma mettici
tutta la forza che hai. E se gli rompi un osso, poco male. Se ti fai picchiare
tutti i giorni e non fai qualcosa per reagire, finirà per diventare un’abitudine
che ti porterai dietro per tutta la vita». Ti ha detto cosí, giusto?– Parola per parola.– E il giorno dopo ti sei procurato un bastone durante la ricreazione, lo hai
lasciato appoggiato al muro, accanto alla scalinata d’ingresso, e quando è
suonata la campanella dell’uscita ti sei scaraventato fuori piú in fretta che
potevi, precedendo il bulletto, e hai recuperato il bastone.– Ci puoi giurare.– E ti sei messo ad aspettare.– Come un cazzo di falco davanti alla tana di un topo.– Lui è sceso giú per la scalinata e tu…– Ho sollevato il bastone, – dissi. – Gesú, mi sembra ancora di sentire
come fischiava nel vento, e il rumore che ha fatto quando lo ha preso sulla
gamba, appena sopra il ginocchio, proprio mentre scendeva l’ultimo scalino.
Ricordo ancora meglio quel sorrisetto da bastardo di merda che aveva sulla
faccia quando mi ha visto, e prima che si accorgesse del bastone. E ricordo
meglio ancora, se possibile, come è cambiata la sua faccia quando ha capito
cosa avevo in mano. Ma a quel punto era troppo tardi.– Proprio come dicevo.– L’ho colpito mentre caricava il peso sulla gamba sinistra. Lo schiocco
del bastone mi è sembrato un coro di angeli che intonasse un’unica nota,
chiara e limpida, e lui è andato giú, faccia a terra.– E quando ha provato a rialzarsi?– L’ho colpito alla schiena con tutta la forza che avevo, e Dio, se è stato
bello. A quel punto non potevo piú fermarmi, Leonard. Giuro che sarebbe
stato impossibile.– Continua, fratello. E non saltare un solo dettaglio. Non mi stanco mai, di
sentire questa storia.– Ho cominciato a piangere e continuavo a far vibrare quel bastone, senza
riuscire a fermarmi. Alla fine un insegnante, anzi, un allenatore, credo, è
uscito da scuola, mi ha preso e mi ha tirato via da quel bastardo, e il bastardo
frignava come un bambino e gridava: «Non mi picchiare piú. Ti prego,
basta».
A quel punto ho cominciato a sentirmi in colpa…– Come ti succede sempre, – disse Leonard.– … e mi hanno portato nell’ufficio del preside insieme a quello stronzo,
ci hanno fatti sedere uno accanto all’altro e a quel punto piangevamo tutti e
due, io di felicità e lui perché gli avevo appena fatto il culo a strisce con un
bastone, e zoppicava pure, cazzo. Si era fatto cosí male che non riusciva quasi
a camminare.– E il preside che cosa ha fatto?– Lo sai già, che cosa ha fatto.– Sí, ma visto che ti sei messo al lavoro e sei già bello sudato, tanto vale
che tiri fuori tutto, fino all’ultima parola. Anche perché, da quel che vedo, è
una ferita ancora aperta, come se tutta questa faccenda fosse successa ieri.– Proprio cosí. Il preside ha detto: «Hap, lo hai colpito con un bastone?» e
io gli ho risposto: «Sí, piú forte che potevo». A quel punto il preside lancia
un’occhiata al bulletto e gli dice: «E tu, che cosa hai fatto?» «Non ho fatto
niente», risponde quello. «No, – continua il preside. – Che cosa hai fatto ieri,
e ieri l’altro, e che cosa ti era stato detto?» E il ragazzino risponde: «Di
lasciare in pace Hap».– E a quel punto che cosa ha detto il preside? – chiese Leonard. – Avanti,
vai fino in fondo.– Tu sei matto, Leonard. Lo sai benissimo che cosa ha detto.– Come ti ho già spiegato, non mi stanco mai, di sentirmi raccontare
questa storia.– Ha detto al ragazzino: «Ma tu hai continuato come se niente fosse, vero?
Hai continuato perché ti piaceva l’idea di prendertela con qualcuno che non
avrebbe reagito perché non voleva o non poteva farlo. Oggi, però, ti ha
aspettato all’uscita. Oggi non sei stato tu a cominciare, ma tutti gli altri giorni
sí, invece, perciò hai avuto quello che meritavi, bulletto che non sei altro. Te
la sei presa con un bravo ragazzino che non aveva nessuna voglia di fare a
botte e voleva solo essere lasciato in pace; so per certo che ti ha chiesto di
smetterla, è venuto anche da me, io ti ho parlato, e tu hai continuato lo stesso.
Perché?» «Non lo so», ha risposto lo stronzo. «Ecco, – ha commentato il
preside. – Il classico mantra degli ignoranti e dei falliti».
Presi fiato, respirando a fondo.– Li ricordo perfettamente, quei due aggettivi. Ignoranti e falliti. Poi il
preside mi ha detto: «Hap. Se ti prende di nuovo di mira, sei autorizzato a
raccattare un bastone e a fargli un paiolo grosso come una casa. Se invece ti
becco che gli fai gli agguati o che lo picchi solo perché te lo puoi permettere,
allora diventa un’altra faccenda. In quel caso sarai diventato come lui, un
bulletto da quattro soldi. Stavolta se l’è cercata, ma da adesso in poi si
meriterà un’altra lezione solo se sarà lui a cominciare. Se però continua a
darti fastidio, tu rendigli pan per focaccia e io non farò niente e non dirò
neanche una parola.
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