Florilegi da Eschilo, Sofocle e Euripide – Bartolomeo Di Monaco

SINTESI DEL LIBRO:
In “Agamennone”, si descrive con bella pagina come fu trasmessa
ai greci la notizia della vittoria su Troia. Leggiamola insieme (è
Clitennestra, o anche Clitemestra, che racconta):
“Efesto fu che dall’Ida mandò il primo segnale luminoso. E una
fiamma accendeva altra fiamma, di là fino qui, come in una corsa di
messaggi di fuoco. Trasmise l’Ida l’annunzio fin sulla nuda vetta del
monte Ermeo in Lemno. Poi dall’isola di Lemno la grande fiaccola
l’accolse la cima del monte Atos che è sacra a Zeus; e fu il terzo
messaggio. E poi, con un balzo, valicato il dorso del mare, torcia di
pini, orofulgente come sole, allegro impeto di viaggiante fuoco, il
quarto messaggio di luce giunge alle vedette del monte Macisto. Né
indugia il Macisto, non si lascia vincere da storditezza o da sonno,
non trascura il suo turno di messaggero, e la vampa del rogo, lungi
scorrendo sui flutti dell’Euripo, reca il segnale ai guardiani del
Messapio. Questi a loro volta rispondono fuoco con fuoco e
spingono ancora più oltre l’annunzio accendendo un cumulo di erica
secca. Acquista forza la fiamma, non perde splendore, varca di un
lancio la valle del fiume Asopo, e sembra un chiarore di luna; e
giunta sull’alto del Citerone, quivi suscita un’altra vicenda, un altro
messaggio di fuoco: perché pronta la guardia accoglie quel
folgoreggiare lontano e accende un incendio che tocca le stelle.
Irrompe questo di là dalla palude Gorgopide e giunge sul monte
Egiplancto. E anche qui incita le scolte perché all’appello del fuoco
subito risponda un’altra risposta di fuoco. Accendono esse smisurato
rogo e sollevano così alte lingue di fiamma che il loro fiammeggiare
oltrepassa la rupe che è sopra lo stretto Saronico. E ancora il fuoco
si precipita avanti e raggiunge il giogo Aracneo dove è la vedetta più
prossima alla città. E finalmente la luce è qui, raggia sul tetto degli
Atridi, luce che è l’ultima figlia generata dal fuoco dell’Ida. Questa fu
la vicenda dei miei lampadofori in corsa, che l’uno tolse dall’altro il
segnale, e nella corsa vincono insieme l’ultimo e il primo. Questa è
la prova ch’io dico, questo il concordato segnale, questo è l’annunzio
che da Troia il mio sposo trasmise fino a me.”.
Ecco come Clitennestra uccide lo sposo Agamennone, che aveva
sacrificato ad Artemide la loro figlia primogenita Ifigenìa Lo racconta
lei stessa: “Delle molte parole che or ora dissi quali necessità
richiedeva, non mi vergogno di dire ora il contrario. Come altrimenti
un proprio nemico, che abbia volto di amico, può uno trattarlo come
nemico, se con serrandogli addosso una maligna siepe ingannevole,
e così alta che non la possa saltare? A questo scontro da molto
tempo io pensavo. La mia vittoria, la compiuta vittoria, venne.
Ritardò; ma venne. E ora qui sono, dove ho colpito; qui sto, dove ho
compiuto il debito mio. Sì, questo ho fatto. E anche il modo ti voglio
dire. Perché costui non sfuggisse al suo destino, perché scampo non
avesse, in una rete senza uscita, come in una rete da pesci, io lo
ravvolgo. Oh, quale fastoso mantello di morte! Due volte lo colpisco;
due volte egli grida; e lascia cadere giù le sue membra. E su lui
caduto un terzo colpo aggiungo per dono votivo a Zeus salvatore dei
morti. E così morendo, egli rutta fuori la sua anima. Irrompe dalla
ferita un getto violento di nero sangue, e mi percuote, e mi sembra
uno spruzzo di rugiada; e io ne gioisco, come di una gioiosa pioggia
un campo di grano negli aperti calici delle sue spighe in fiore. Così
stanno i fatti, o venerandi cittadini di Argo. Vogliate voi rallegrarvene
o no, io me ne glorio. E se fosse lecito fare libagioni sopra un
cadavere, su questo sarebbe giustizia, e somma giustizia. Di tanti
misfatti, di tante maledizioni egli aveva qui nella casa riempita la
coppa; e ora che è ritornato, se la beve tutta fino all’ultima goccia.”.
Troveremo anche queste parole dette dal Corifeo: “Che cosa è un
vecchio quando le fronde già sono inaridite? Se ne va per la via su
tre piedi, è meno saldo di un bimbo, e vagola simile a fantasma di un
sogno diurno.”.
Ancora: “C’è tra i mortali antichissimo detto che quando una
grande fortuna è giunta al suo colmo non muore senza figli, e da
prosperità rampolla e fiorisce insaziabile male.” E poco dopo il
Corifeo dirà: “Pochi uomini hanno da natura il dono di onorare
l’amico felice senza invidia; il veleno della malignità, quando ha
messo radici nel cuore, raddoppia il male di quello stesso che ne è
ammalato, perché oltre al peso del proprio soffrire anche la vista
della felicità altrui gli è cagione di cruccio.”.
Clitennestra: “Non c’è felicità senza invidia.”.
Troviamo una stoccata ai presuntuosi. Ai Coreuti fa dire:
“immaginarsi di sapere non è sapere”. Più avanti sarà il Coro a dirci:
“Il futuro, dopo accaduto lo puoi conoscere. Prima, segua il suo
corso. Ė come voler piangere anzitempo.” .
I Persiani
Ne “I Persiani” si parla della sconfitta di Serse da parte dei greci
nella battaglia di Salamina.
Così Serse si lamenta, ricordando la disfatta:
SERSE:
Ahi,
oh me infelice,
destino di dolore,
che dèmone crudele
calava sulla razza dei Persiani!
Che faccio, sventurato?
Guardando i vostri anni, cittadini,
le mie membra si sciolgono.
Zeus, fra tanti scomparsi,
la morte anche me
doveva ricoprire.
CORIFEO:
Ahi, ahi o Re,
la nostra bella armata,
il grande onore della nostra Persia,
quanta bellezza d’uomini
un dèmone ha reciso!
Piange la terra
la giovinezza di questo paese
che Serse ha ucciso
e ha riempito l’Ade di Persiani.
Incamminàti verso l’Ade,
in molti, e sono il fiore del paese,
maestri d’arco, tutta una foresta
di uomini, infinita,
consunta. Ahi, valorosa difesa.
La terra d’Asia, o re di questa terra,
miseramente
miseramente piegai ginocchi.
SERSE:
Ohi me, oh pianto ,
oh lamento, quanto male ho portato
io, alla mia gente, alla mia patria!
CORO:
Triste voce triste grido
rivolgo al tuo ritorno,
lamentazioni della Mariandinia,
grida di lagrime.
SERSE:
Date una nenia di molto dolore,
voce di lutto,
perché il Divino si è voltato
contro di me.
CORO:
Darò la nenia di molto dolore,
venererò il peso ignoto amaro
di percosse e di mare,
della città, della stirpe dolente,
susciterò un lamento d’alto pianto .
SERSE:
Ares degli Ioni,
Ares ci rapiva,
con un muro di navi,
difensore degli altri,
rase la piana oscura
e l’infelice riva.
CORO:
Ah, grida, conosci tutto!
Dov’è la folla degli amici tuoi?
1 tuoi luogotenenti
Farandace, Susa, Pelagone,
Dotama e Agdabata, Susiscame
e Psammi, che partirono da Ecbàtana?
SERSE:
Li abbandonai perduti
mentre da una nave di Tiro
vagavano lungo le coste
di Salamina, urtando
le rive dure.
CORO:
Ahi! E dove è Famuco,
il buono Ariomardo,
Seuace il principe,
il nobile Lilèo,
Menfi,Taribi,
Masistra, e Artèmbare
e Istaicma? Noi te lo chiediamo!
SERSE:
Ahi, ahi, là,
in vista dell’antichissima
maledetta Atene
tutti, tutti in un colpo, gli infelici,
boccheggiano all’asciutto.
CORO:
E laggiù, c’è anch e
l’occhio di noi Persiani, il fedelissimo,
che passava in rassegna le miriadi,
il figlio di Batanoco, Altisto!
e quello di Sesama, e quello di Magàbata
e il Parto grande e Oibare,
li lasciasti, li lasciasti laggiù...
poveri, poveri!
Ai nobili Persiani
mali racconti, mali sopra mali!
SERSE:
Nostalgia
di quei buoni compagni che ricordi,
maledetti dolori,
come tu dici, mali sopra mali!
Il cuore urla,
dal profondo suo essere, urla.
CORO:
E anche degli altri si piange ,
Xanti capo dei diecimila Mardi,
il perfetto Arcare,
Diaissi,Arsame
signori di cavalieri,
Dadace, Litimna,
Tolmo, mai sazio di lancia!
Strano stupore
di non vederli al tuo seguito,
presso il carro velato!
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