Freaks – Antonio Nunziante

SINTESI DEL LIBRO:
Io resto qui. Non c’è più l’aroma del legno bruciato. Solo un’aria
pesante fatta di tutti gli odori impossibili da interpretare nella loro
totalità senza catalogarli come “profumo del passato”.
Ho solo paura di morire. Il mio corpo comincia a cedere. Non me ne
stupisco, è arrivato molto oltre le sue capacità.
Non c'è più nulla da salvare ormai, se non la mia storia e quella di
Zippy. Era così che chiamavo Ezequiel. Anche la mamma lo
chiamava così.
Zippy è nato tre anni dopo di me, e dicono che appena nato (i pochi
che ancora ne parlano) fosse la copia sputata di mio padre. Con il
tempo, crescendo, i suoi tratti cominciarono a deviare per sommarsi
a quelli del nostro nonno paterno, che io ricordo come un vecchio
simpatico, taciturno spesso... e magro da far spavento. Non ricordo
molto altro di nostro nonno; veniva a trovarci poco, e negli ultimi anni
della sua vecchiata falciata da un ictus semplicemente non lo
vedemmo più. Non andammo al suo funerale. Nostro padre ci proibì
di presenziarvi, sia noi che nostra mamma. Andò da solo a
Whitecastle e provvide a seppellirlo insieme ai suoi fratelli. Dalla
casa in cui era cresciuto e si spera fosse stato felice, non portò nulla
a parte una collezione di bottiglie di Johnny Walker e una vecchia
foto di sua madre.
Ricordo fin troppo bene il rumore delle bottiglie che si svuotavano, e
ricordo ciò che successe dopo. Fu il giorno in cui dovetti spiegare a
Zippy il gioco del silenzio.
Santo Cielo, riusciva a stento a capire quello che dicevo...
Il
mio fratellino stava giocando con un vecchio robot senza un
braccio, precedentemente appartenuto al figlio dello zio Mike, che
scaricava in casa nostra tutti i giocattoli rotti dai suoi quattro figli. A
mio padre dava fastidio vederlo giocare con quegli scarti. Credo che
lo facesse sentire impotente, e non di certo nei confronti dei suoi
figli: non riuscire a imporsi davanti a suo fratello Mike con giocattoli
più grossi e belli, come con qualsiasi altra cosa che possedesse, era
una frustrazione logorante. Lasciava che li portasse solo perché
quello era l'unico modo in cui i suoi figli avrebbero potuto avere dei
giochi con cui distrarsi (e non stargli tra i piedi).
«Ho fame, Diane...» disse a mia mamma, che non smetteva di
osservare con la coda dell'occhio sia suo marito che il figlio mentre
provava a far volare senza riuscirci il suo robot.
«Arrivo subito, Trev. Jimmy, apparecchia, da bravo.»
Ero un bambino obbediente, di solito, ma quella volta la diligenza era
un fattore del tutto secondario. C'era elettricità nell'aria. Un'energia
negativa che veniva fuori dallo scarico del lavandino, dai buchi delle
prese elettriche, dal forno, dal frigo... era liquida e la sentivo
dappertutto. Si infilava a forza nel naso e faticavo a respirare, ma
serviva anche a farmi muovere più velocemente. Non era la prima
volta che avvertivo quel cambiamento nell'aria, ed ogni volta che
avveniva, muovermi velocemente e fare tutto ciò che potesse
apportare un minimo beneficio alla situazione era una specie di cura.
Riuscivo a sprigionare luce imbandendo la tavola con amore,
scacciando quella cosa buia e pregandola di attendere ancora un po'
prima di fare qualcosa alla mia famiglia. Corsi al cassetto con le
posate, ma non feci in tempo a raccoglierne quattro.
«Diane, quel forno elettrico...»
«Solo questione di pochi minuti, Trev...»
«Sai bene che andrebbe acceso almeno trenta minuti prima. Sai
bene che finirai per servire la cena in ritardo, ed io ho fame.»
Ruttò, rivolgendosi poi a Zippy.
«E tu smettila!»
Zippy stava per lanciare di nuovo in aria il suo robot, ma rimase così,
con il braccio alzato e la faccia rivolta verso suo padre, tra lo
spaventato e il meravigliato. Non lo aveva mai sgridato prima. Non
ne aveva mai avuto motivo. Zippy giocava sempre in modo
silenzioso, aveva fatto ciò che aveva fatto solo perché suo cugino
Larry gli aveva mostrato un robot identico al suo, ma sano, bello e
funzionante, che quando veniva caricato a molla e poi lanciato
azionava un'elica che lo faceva planare lentamente sul pavimento.
Io restai con le quattro forchette in mano osservando la scena. Non
mi azzardavo ad avvicinarmi al tavolo sul quale mio padre teneva
appoggiato un braccio. La materia oscura che riempiva la stanza era
così compatta da togliermi il respiro.
Quattro secondi di silenzio. Erano sempre quattro, prima che
accadesse qualcosa, prima di qualsiasi rumore di pezzi che si
rompevano e di urla. A esplodere, quella volta, fu la bottiglia di
Johnny Walker a una ventina di centimetri dai piedi di Zippy, che
ritirò il collo nelle spalle e strizzò violentemente gli occhi. Il braccio
che teneva in mano il robot era ancora sollevato, ma come se si
fosse raggrinzito e la mano si era avvicinata alla faccia in un
accenno di protezione. I cocci gli volarono tra le gambe aperte e uno
di questi lo colpì proprio sopra il pannolino. Aveva smesso di portarli
da un po', i pannolini, ma ultimamente bagnava il letto e si agitava
nel sonno, e si era svegliato da poco dal suo pisolino.
Papà afferrò il robot, lo batté sui cocci e lo schiacciò con il piede.
Era quello il momento in cui avrei dovuto tapparmi le orecchie e
correre via, come mia madre mi aveva già insegnato tempo prima,
ma questa volta avrei dovuto tirar via Zippy verso la porta, nel
ripostiglio dell'asse da stiro e dei detersivi. Presi il piccolo per le
ascelle e lo portai con me. Non ricordo bene cosa dissi. Avevo sei
maledettissimi anni, e tutto quello che accadde si confonde con altre
sequenze analoghe, ripercorrendo attimi a scatti, come sogni: un
attimo prima sei qui, e un attimo dopo sei dall'altro lato della stanza,
con un'altra prospettiva e altre luci.
Ricordo solo che fu diverso.
Zippy non fiatava, ma rantolava pesantemente. Era bollente al tatto
e i suoi capelli contro la mia maglietta mi bagnavano come se la sua
testa fosse una spugna piena di sudore. Sorrisi, esattamente come
aveva fatto mia madre ogni santa volta spingendomi verso quel
piccolo sgabuzzino, ma lui, invece di sorridermi di ricambio, rimase a
fissarmi come se fossi un mostro. La sua maglietta di Taz era
macchiata dalla saliva che riversava a rivoli dalla bocca
perennemente spalancata. Riuscii a guadagnarmi il ripostiglio e
chiusi la porta alle mie spalle.
La cosa più brutta era la luce. Filtrava tra le piastrelle e la porta, e mi
faceva vedere Zippy che si guardava intorno, cercando di dare un
senso a tutto quanto gli succedeva... e i suoi occhi spalancati.
Avrei già dovuto tappare le orecchie, a quel punto, ma dovevo
pensare prima a lui. Non doveva perdere, a quel gioco. Gli schiacciai
i
suoi stessi palmi sulle orecchie mentre cominciavo a perdere
lucidità. Il suo respiro diventava sempre più pesante, fastidioso,
come se avesse una pallina di carta incastrata in gola e stesse
facendo di tutto per sputarla via o spingerla giù.
Prima che riuscissi a tapparmi le orecchie sentii mia madre pregare
mio padre di calmarsi.
«Butterò via quello stupido giocattolo. È orribile, non lo voglio più
in...»
«Stai zitta!» e il rumore di un colpo che risuonava in tutta la casa.
Poi i palmi sulle orecchie, e tutto divenne roboante, indistinguibile, a
parte il battito delle sedie che venivano scaraventate a terra.
“Tutto parte del gioco” pensavo. Un gioco a cui non mi ero mai
divertito, ma che mia madre mi imponeva di fare con diligenza, se le
volevo bene. E io... oh, se le volevo bene.
Le regole imponevano che io riaprissi gli occhi e togliessi le mani
dalle orecchie solo se era mamma a togliermele. Non andò così,
quella volta. Venni letteralmente scaraventato via da lei che
scuoteva con forza Zippy.
«Che cosa gli hai fatto, Jimmy? Che cosa gli hai fatto?»
Mamma perdeva sangue dal naso. È stupido pensare che io non
capissi il perché, ma voi avete bisogno di entrare in un particolare
circolo vizioso, proprio quello in cui mi avevano spinto a forza: avevo
sei maledetti anni, vi ripeto. Se mia madre diceva che faceva tutto
parte del gioco, potete ben giurarci che faceva tutto parte del gioco.
La voce di Dio non potrebbe mai superare quella di una madre agli
occhi di un bambino, e proprio come la voce dello stesso Dio che mi
ha abbandonato, così anche lei mi ha riempito di bugie per gran
parte della vita.
Non era la prima volta che succedeva di vederla ridotta in quello
stato, e sapevo bene che “mamma era scivolata.” Ritenevo
semplicemente triste che dovesse cadere a terra e ferirsi per uno
stupido gioco che non rendeva allegro nessun componente della
famiglia.
«Cosa gli hai fatto? Jimmy!»
Io non sapevo cosa dire. Mio fratello stava per strozzarsi da solo, io
non mi ero reso conto di niente e mia madre sputava sangue dalla
bocca, mentre mio padre stava ritornando ad urlare. Ero quasi sicuro
che il gioco quel giorno avrebbe avuto una seconda parte, un
proseguimento, ma mia madre afferrò Zippy e lo condusse fuori dallo
stanzino.
«Trevor! Trevor!»
E poi la corsa in macchina, mio padre che parcheggiò a dieci metri
dall'ospedale chiudendo me e mia mamma a chiave, lei che batteva i
pugni sui vetri.
«Perché? Perché? Fammi uscire, Trevor!»
Stava seduta dietro con me, e la chiusura di sicurezza per i bambini
le impediva di uscire. Aveva intenzione di saltare sul sediolino dal
lato guida e sbucare fuori, quando mio padre colpì un vetro come se
volesse dare uno schiaffo, imprimendo una mano di grasso e sudore
sul cristallo, dietro al quale due occhi quasi fuori dalle orbite
guardavano con odio la donna che non voleva fare altro a parte
aiutare suo figlio.
«Non puoi, cazzo! Guardati in faccia! Lo porterò io!»
E lei finalmente capì. Evitò di colpire i vetri, ma non riuscì a smettere
di piangere per tutto il tempo in cui restammo sospesi in quel limbo
di pazzia collettiva.
Quando ritornarono dall'ospedale, Zippy si manteneva sulle proprie
gambe e camminava mano nella mano con papà. Aveva in mano
uno snack al cioccolato e il musetto sporco. Solo allora mia madre
smise di piangere, scappò via dall'auto nonostante lo sguardo truce
di mio padre e corse ad abbracciare il suo piccolo.
Asma: ecco cosa era capitato a Zippy. Una crisi così violenta da
scuoterlo fin nel profondo.
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