Elegante semplicità – L’arte di vivere bene – Satish Kumar

SINTESI DEL LIBRO:
Sono nato il 9 agosto del 1936 nel deserto del Rajasthan, in India, in
una casa vicino a un pruno. Non c’era elettricità, e nemmeno radio,
televisione, telefoni, automobili e computer. In compenso, avevamo
cammelli e mucche, campi e fattorie, canzoni e storie, arti e mestieri,
danze e musica a volontà. A crescermi è stata mia madre. Mio padre è
morto quando avevo quattro anni. Per mia madre, travolta dal dolore,
sono stato una fonte di consolazione, o almeno così diceva. Sebbene mi
abbia dato molto amore, non poteva nascondere il suo cuore spezzato, né
a me né a nessun altro.
Mio padre è morto per un attacco di cuore all’età di cinquant’anni,
lasciando a mia madre, di dieci anni più giovane, il compito di prendersi
cura di me e dei miei sette fratelli. Sebbene fosse spesso in lacrime, la
mamma si è occupata di noi con enorme coraggio, e tuttavia, quando ero
piccolo, non ho potuto fare a meno di percepire la sua tristezza, il suo
dolore e la sua solitudine.
Con il passare del tempo, ho notato un cambiamento. Mia madre ha
iniziato a praticare la meditazione. Mi capitava di sentirla recitare dei
mantra sull’equanimità, sull’accettazione dei piaceri e dei dolori, dei
successi e delle perdite, sulla nascita e sulla morte come realtà esistenziali.
Mentre meditava, il pesante velo della sua tristezza si sollevava dal suo
volto e il suo intero corpo emanava resilienza. Queste meditazioni l’hanno
condotta a uno stato più profondo dell’essere. Nei suoi occhi, al posto
delle lacrime, ho visto risplendere una luce benevola.
Mi portava in giro nella nostra piccola fattoria e chiacchieravamo di
alberi, api e farfalle. Mi parlava del potere curativo della Natura, che
diceva essere la sua maestra. Ricordo bene quelle meravigliose passeggiate,
così divertenti e affascinanti, durante le quali mi raccontava delle storie e
cantava delle canzoni.
Mi piaceva come camminava, come parlava e come rideva. In particolar
modo, adoravo le sue lunghe storie, che sapevano catturare la mia
attenzione. Ero sempre contento quando potevo camminare con mia
madre nella nostra fattoria. Mi faceva piacere pensare che fosse mia madre
e che conoscesse e ricordasse così tante cose. Sono stato fortunato ad
avere una madre come lei; è stato il mio mentore, la mia maestra, il mio
guru e la mia eroina. L’incarnazione stessa dell’elegante semplicità.
Quando ci ripenso, trovo ancora stupefacente come la sua vita fosse
passata da uno stato di disperazione e solitudine a uno stato di serenità,
stabilità e appagamento. La rammento in tutta la sua bellezza come una
brava madre, una giardiniera provetta e una casalinga felice. Era una
donna che si era lasciata alle spalle le sue paure, che celebrava il presente
in ogni singolo istante e che aveva fiducia nel futuro, senza dubbi o
desideri. Era raro che si adirasse.
Nonostante la mamma avesse superato la morte di mio padre, io ero
sempre più triste. Allora avevo sette o otto anni e non potevo dimenticare
i giorni in cui l’avevo vista stretta nella morsa del dolore, i giorni in cui a
un tratto si metteva a singhiozzare e io mi chiedevo: «Perché mio padre è
morto? Cos’è la morte? Morirà anche mia madre? Morirò anche io?».
Nessuno aveva delle risposte soddisfacenti a queste domande, nemmeno
mia madre. «Sì» mi rispondeva lei «anch’io un giorno morirò, anche tu
morirai, moriremo tutti. Siamo presi in un ciclo infinito di nascita e
morte». Questo genere di risposte mi aveva reso ansioso e infelice.
Volevo che qualcuno mi dicesse: «Sì, si può fare qualcosa per impedire
che la gente muoia. Si può avere una vita senza morte». Nessuno, ma
proprio nessuno, mi ha detto parole simili.
Poi un giorno ho parlato con un venerato monaco giainista di nome
Tulsi. Il suo nome significava ‘basilico’, ‘basilico sacro’; qualcosa di
semplice e ordinario, eppure l’uomo era decisamente fuori dal comune.
Tulsi era il guru di mia madre e della nostra famiglia. Aveva decine di
migliaia di seguaci in cerca di salvezza. La gente lo chiamava Gurudev,
guru divino. Era adorato, idolatrato.
Quando l’ho conosciuto aveva solo trent’anni. Era bello e felice. La
gente credeva che fosse un essere illuminato. Come tutti gli altri, anche io
ero ipnotizzato da questa figura; era come il padre che avevo perso. Ma
era più di questo, era l’incarnazione della serenità e della pace. E
soprattutto, diceva le parole che aspettavo di sentire da molto tempo: «Sì,
puoi porre fine al ciclo della nascita e della morte, puoi raggiungere il
nirvana, la liberazione definitiva, la libertà dal vai e vieni mondano. Sì,
puoi essere libero dal dolore per la perdita dei tuoi cari, dalla solitudine e
da ogni altro tipo di sofferenza». Queste parole provenivano dalla bocca
di un uomo che aveva scoperto la verità e che era creduto da tutti.
«Che cosa devo fare per raggiungere il nirvana?» gli chiesi.
Gurudev aveva risposto in modo fermo e deciso: «Devi rinunciare al
mondo e seguire la via dei monaci. Lascia andare il tuo orgoglio e i tuoi
beni. Liberati dai legami famigliari e dall’attaccamento alla ricchezza. Devi
vivere la vita di un monaco».
«Voglio seguirti, Gurudev! Farò di tutto per sconfiggere la morte.
Voglio essere un monaco!». Queste parole uscirono dalla mia bocca senza
alcuna esitazione. Mi batteva forte il cuore. Il mio corpo tremava. La mia
mente era sopraffatta dalla prospettiva di camminare al fianco di Gurudev
Tulsi. Con lui mi sentivo al sicuro.
Molte persone pensavano che avessi un’anima vecchia in un corpo
nuovo. In India crediamo nella reincarnazione e in un karma ereditato
dalle vite precedenti. La mia attrazione per la vita monacale, quindi,
poteva avere a che fare con il mio karma.
Per fortuna mia madre, un po’ a malincuore, ha capito. Mi ha detto:
«Se questa è la tua vocazione e il tuo destino, chi sono io per ostacolare la
tua ricerca spirituale?». Altri membri della famiglia e alcuni amici di mia
madre non sono stati altrettanto comprensivi e generosi. «Un bambino di
nove anni non può sapere quale sia la sua vocazione o il suo destino». A
questa obiezione dei miei fratelli, mia madre ha dato una risposta ferma e
al contempo carica di emozione: «Lo so, lo so. Per me è difficile lasciare
andare mio figlio, ma un bambino non è un adulto non ancora sviluppato.
Se oggi scoraggiamo il suo desiderio di vita spirituale, come possiamo
sapere quale effetto produrremo sulla sua giovane anima? Non è facile,
ma a conti fatti, dobbiamo consentirgli di fare quello che vuole».
I miei fratelli erano sbalorditi. Le parole di mia madre mi avevano
scaldato il cuore. Mi amava, ma non mi voleva per sé. Credo che sia stata
lei a gettare nella mia vita i semi dell’audacia e dell’attivismo, dimostrando
di essere abbastanza coraggiosa e altruista da lasciarmi andar via di casa
per seguire un percorso di pace. Alla fine, ho anche convinto il più
scettico dei miei fratelli a darmi il suo permesso e a consentirmi di
diventare un sadhu errante.
Mi sono lasciato alle spalle la casa in cui ero cresciuto e il legame
d’affetto che avevo con la mia cara madre. Tenevo una ciotola per
l’elemosina in mano e mangiavo solo una volta al giorno. Camminavo a
piedi nudi cantando il sacro mantra «Om… Om… Om».
«Non badare agli affari del mondo. Non leggere altri libri se non le
sacre scritture dei giainisti. Impara a memoria i testi sacri e medita su di
essi giorno e notte». Così parlava il mio Gurudev. «Liberati di tutta la
negatività che ti porti dietro dal passato attraverso austere pratiche di
ascetismo».
Così non mi sono lavato per nove anni. I miei spessi capelli neri mi
venivano strappati a mano due volte l’anno. Ho iniziato a digiunare per
ventiquattro ore, poi per quarantotto, poi per tre giorni al mese. Me ne
stavo seduto in silenzio per due ore al mattino e per due ore la sera,
concentrandomi sull’atman, il mio io intimo ed eterno, fondendomi con il
paramatman, lo spirito supremo e sconfinato fatto di luce pura.
Dopo aver parlato con il mio guru e aver letto alcune scritture giainiste
ho iniziato a vedere il mio corpo come una prigione, il mondo come una
trappola, e meditavo per liberarmi dall’orgoglio e dall’avidità, dall’ira e
dall’ego, dai desideri e dai dubbi, così da essere purificato da tutti i
peccati.
Tutto questo è andato avanti per anni. Per lungo tempo ho atteso quella
sfuggente liberazione, il mokṣa. Stavo entrando nella mia adolescenza.
Avevo tra i quattordici e i quindici anni. Le mie meditazioni si sono fatte
più lunghe e i miei digiuni più frequenti. Camminavo in solitudine,
cercando la salvezza. Quando avevo tra i sedici e i diciassette anni mi sono
detto: «Devo sforzarmi ancora di più per trovare la libertà nella mia
anima. Che altro posso fare? Oh Kala, dio della morte, vieni da me, vieni
presto e liberami da questo corpo peccaminoso, liberami da questo
estenuante mondo». Ricordo vividamente quel periodo di sconforto.
Volevo morire e non tornare mai più su questo mondo.
Poi un discepolo laico, Kishor, avendo percepito la mia agitazione, ha
osato darmi un libro del Mahatma Gandhi. Leggere libri di carattere non
religioso, inclusi quelli di Gandhi, non mi era permesso, ma io l’ho fatto in
segreto. Quel testo ha messo duramente alla prova la mia mente inquieta.
Una notte Gandhi mi è apparso in sogno. Stava salendo a piedi su una
collina e io ero più in basso, dietro di lui. Poi si è seduto e mi ha aspettato.
Quando l’ho raggiunto mi ha detto: «Non c’è bisogno di abbandonare il
mondo per trovare la salvezza». Dopodiché si è alzato e ha proseguito il
suo discorso: «Vieni con me. Pratica la spiritualità servendo il mondo, non
rinunciando ad esso. Rinuncia alla tua passione, alla tua cupidigia e ai tuoi
desideri; solo così potrai trasformare la tua vita e trovare la salvezza».
Mentre Gandhi pronunciava queste parole, una luce lo ha avvolto e lo ha
sollevato, finché non è scomparso tra le nuvole, come se avesse raggiunto
il nirvana.
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