Educazione di una canaglia – Edward Bunker

SINTESI DEL LIBRO:
Nel marzo del 1933, la California del Sud all'improvviso prese a
ballare al ritmo di un rock and roll che risuonava dal ventre della
terra. I soprammobili danzarono sulle mensole dei caminetti prima di
schiantarsi a terra. Le finestre andarono in frantumi e precipitarono a
cascata sui marciapiedi.
Le case di canniccio intonacato scricchiolarono accartocciandosi,
prima su un lato e poi sull'altro, come scatole di fiammiferi. Gli edifici
di mattoni restarono in piedi finché non furono sopraffatti dalle
vibrazioni, e poi rovinarono al suolo sparendo in cumuli di calcinacci
e nuvole di polvere. Il Long Beach Civic Auditorium crollò, e in molti
restarono uccisi. In seguito mi raccontarono che ero stato concepito
nel momento preciso in cui la terra aveva tremato, e quando ero
venuto al mondo, alla vigilia del Capodanno 1933, all'ospedale
Cedars of Lebanon di Hollywood, Los Angeles era sommersa da un
diluvio torrenziale, gli alberi di palme e le case fluttuanti nella
fiumana dei canyon.
All'età di cinque anni, sentii mia madre affermare che il terremoto
e il nubifragio erano cattivi presagi, poiché fin dall'inizio avevo creato
problemi, a cominciare dalle coliche. A due anni sparii durante un
picnic di famiglia a Griffith Park. Duecento uomini setacciarono la
boscaglia per metà della nottata. A tre anni, non so come, riuscii a
demolire l'inceneritore di un vicino, piazzato nel cortile sul retro della
sua casa, servendomi di un martello a granchio. A quattro anni
svaligiai il furgone frigorifero Good Humor di un altro vicino di casa, e
offrii il gelato a un branco di cani del quartiere. Una settimana dopo
provai a essere di aiuto ripulendo il cortile della casa, e appiccai il
fuoco a un mucchio di foglie di eucalipto ammassate accanto al
garage del vicino. Ben presto l'incendio illuminò la notte, e le sirene
dei pompieri lacerarono l'aria. Soltanto una parete del garage restò
annerita dalle fiamme.
Della marachella del gelato e dell'incendio mi ricordo, ma il resto
me lo hanno raccontato. I miei primi ricordi distinti sono dei miei
genitori che litigano, le loro urla, e la polizia che arriva per «mettere
pace». Il giorno in cui mio padre se ne andò di casa, lo seguii nel
vialetto. Piangevo, singhiozzavo e volevo andare con lui, ma mio
padre mi allontanò con uno spintone, saltò sull'automobile e filò via
sgommando.
Abitavamo in Lexington Avenue, a est dei Paramount Studios. La
prima parola che imparai a leggere fu Hollywoodland. Mia madre era
ballerina di fila negli spettacoli di varietà e nei musical di Busby
Berkeley. Mio padre lavorava come macchinista in teatro, e ogni
tanto anche per il cinema.
Non ricordo esattamente le dinamiche del divorzio, ma una delle
sue conseguenze fu il mio internamento in collegio. Dalla sera alla
mattina da figlio unico viziato diventai un moccioso tra una dozzina o
più di bambini più grandi. È in collegio che appresi per la prima volta
la realtà del furto. Qualcuno rubò i dolciumi che mi aveva portato mio
padre. Fu dura per me, in quell'occasione, accettare l'idea del furto.
La prima volta scappai dal collegio all'età di cinque anni. Era una
domenica mattina, pioveva, e tutti gli ospiti della casa tiravano a
dormire fino a tardi. Indossai un impermeabile e un paio di scarpe di
gomma, e sgattaiolai per la porta di servizio. Percorsi due isolati e mi
nascosi nell'intercapedine del solaio di una vecchia casa in legno,
sopraelevata da terra e circondata dagli alberi. Ero all'asciutto e al
riparo dalla pioggia, e da lì potevo spiare il mondo esterno. Il cane
della famiglia mi trovò quasi subito, ma preferì accucciarsi accanto a
me e farsi coccolare piuttosto che lanciare l'allarme. Restai lì finché
non fece buio, smise di piovere e si alzò un vento freddo. Anche a
Los Angeles, a dicembre, la sera può essere fredda per un bambino
di cinque anni. Uscii fuori, e dopo aver camminato per mezzo isolato
fui riconosciuto da uno di quelli che erano partiti alla mia ricerca. I
miei genitori erano in pensiero, naturalmente, ma non in preda al
panico. Che avessi un talento naturale a mettermi nei pasticci non
era certo una novità.
La coppia che gestiva il convitto chiese a mio padre di venire a
riprendermi. Dopo aver tentato con un altro collegio, anche questo
con esito fallimentare, mio padre provò con la scuola militare, la
Mount Lowe di Altadena. Durò due mesi. Poi seguì un altro collegio,
anche questo ad Altadena, una casa di quattrocentocinquanta metri
quadri circondata da mezzo ettaro di terreno. Fu allora che incontrai
per la prima volta Mistress Bosco, che ricordo con affetto. Tutto
lasciava pensare che mi fossi messo a rigare dritto, anche se ricordo
che mi nascondevo sotto il letto del dormitorio per poter leggere. Mio
padre mi aveva costruito una piccola libreria. Poi mi comprò la serie
in dieci volumi dei Junior Classics, versioni adattate per i bambini di
storie famose quali "L'uomo senza paese", "Il vaso di Pandora" e
"Damone e Pizia". Imparai a leggere su questi libri.
Mistress Bosco chiuse il collegio appena qualche mese dopo il
mio arrivo. La tappa successiva fu la Page Military School, tra
Cochran Avenue e San Vicente Boulevard, a West Los Angeles. Ai
genitori dei potenziali cadetti venivano mostrati dormitori luminosi ed
eleganti suddivisi in scompartimenti separati, ma la maggioranza dei
cadetti viveva in alloggi meno sontuosi. Alla Page beccai il morbillo e
gli orecchioni, nonché il mio primo riconoscimento ufficiale di
casinista destinato a finir male. Diventai un ladro. Un ragazzo il cui
nome e la cui faccia ho dimenticato da tempo mi portava con sé,
nelle ore piccole, a razziare negli altri dormitori, mentre frugava nei
pantaloni appesi al muro o appoggiati sullo schienale delle seggiole.
Quando qualcuno dei ragazzi che dormivano si girava su un fianco,
ci accovacciavamo, immobili come statue, il cuore che batteva
all'impazzata. Siccome i pannelli divisori degli scompartimenti
arrivavano all'altezza delle spalle, bastava abbassare la testa per
non essere visti. Una volta, quando un ragazzo si svegliò e ci
affrontò con coraggio, dovemmo darcela a gambe. - Ehi, voi, che
state facendo? - Mentre ce le battevamo di gran carriera, alle nostre
spalle sentimmo urlare - Al ladro! Al ladro! - Una bella scarica di
adrenalina, non c'è che dire.
Una notte un gruppo di noi sgusciò dal dormitorio e, dopo aver
raggiunto furtivamente la grande cucina, ci servimmo di una
mannaia per la carne per tranciare il lucchetto di una cella frigorifera.
Facemmo man bassa di tutti i dolcetti e i gelati. Ci beccarono poco
dopo la sveglia. Venni ingiustamente accusato di essere il capo e fui
punito in modo esemplare. Inoltre, fui designato per il trattamento
speciale da parte degli ufficiali dei cadetti. I miei pochi amici erano
altri emarginati e casinisti come me. Il mio unico, valido risultato alla
Page fu scoprire che conoscevo l'ortografia più di chiunque altro. Pur
dentro al caos della mia giovane esistenza, padroneggiavo sillabe e
fonetica, e ricordavo gran parte delle eccezioni alle regole. È banale,
ma proprio perché ero capace a pronunciare le parole, imparai a
leggere in età precoce, e ben presto con voracità.
Il venerdì pomeriggio quasi tutti i cadetti andavano a casa per il
fine settimana. Quanto a me, un fine settimana andavo da mio
padre, e quello successivo da mia madre. A quel tempo lei lavorava
come cameriera in una caffetteria. La domenica mattina seguivo
l'abitudine diffusa tra la gran parte dei bambini americani dell'epoca:
andavo alla matinée del cinema di quartiere. Proiettavano due film.
Una domenica, nell'intervallo tra i due film, raggiunsi il foyer, dove
appresi che i giapponesi avevano appena bombardato Pearl
Harbour. Qualche tempo prima mio padre aveva dichiarato: - Se quei
bastardi con gli occhi a mandorla aprono il fuoco, manderemo la
Marina americana che farà colare a picco quelle loro carabattole
galleggianti che chiamano isole -. Papà era in sintonia con l'epoca,
quando la parola «negro» compariva nella prosa di Ernest
Hemingway, Thomas Wolfe e altri. Papà disprezzava i «negri», i
«portoricani», i «guappi» e gli inglesi «con quel loro re dei miei
coglioni». Amava la Francia e gli indiani americani, e sosteneva che i
Bunker erano di sangue pellerossa. Io non ci ho mai creduto.
Oggi, rivendicare sangue indiano, per certi versi, fa molto chic. La
nostra famiglia aveva vissuto nella regione dei Grandi Laghi dalla
metà del Settecento, e dopo che mio padre ebbe superato la soglia
dei sessanta, la pelle grinzosa e coriacea della faccia e gli zigomi alti
gli conferivano la fisionomia di un indiano. A dire il vero, man mano
che invecchio, anche a me talvolta domandano se sono di sangue
indiano. Davvero non lo so, né mi importa.
Alla Page Military School le cose peggiorarono. Gli ufficiali dei
cadetti resero la mia vita un calvario, e così una bella mattina come
ce ne sono in California, io e un altro cadetto scavalcammo il recinto
sul retro dell'edificio e puntammo verso le colline di Hollywood,
distanti poco meno di cinque chilometri. Erano verdi, punteggiate di
tetti rossi. Facemmo l'autostop per superare le colline e passammo
la
notte nella carcassa di un'automobile demolita accanto a
un'autostrada a due corsie, guardando gli enormi autotreni che
passavano rombando. Adesso quell'autostrada è diventata
un'interstatale di scorrimento a dieci corsie.
Dopo la notte trascorsa a tremare di freddo, e assalito dai morsi
della fame al sorgere del sole, il mio compagno mi comunicò che
intendeva tornare indietro. Lo salutai e presi per un sentiero lungo la
ferrovia che separava l'autostrada dalla distesa sconfinata degli
aranceti. Mi imbattei in un treno carico di autocarri verdi oliva
dell'esercito in attesa su un binario di raccordo. L'avevo ormai
raggiunto quando il treno si mise in moto con un rollio fragoroso. Mi
aggrappai a una ringhiera e saltai su. Le centinaia di autocarri militari
non erano chiusi a chiave, così salii a bordo di un veicolo e passai il
tempo a rimirare il panorama che scorreva dinanzi a me mentre il
treno viaggiava verso nord.
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