Divario di cittadinanza – Un viaggio nella nuova questione meridionale – Luca Bianchi

SINTESI DEL LIBRO:
Il
6 marzo, quando già in Lombardia è da giorni scoppiata
l’emergenza coronavirus, un carabiniere con febbre alta e tosse
arriva al pronto soccorso dell’Ospedale Civico di Palermo, una delle
più grandi aziende sanitarie del Sud Italia. La moglie aveva chiamato
il 118 per una sincope e l’ambulanza era arrivata pochi minuti dopo
con a bordo un rianimatore. Da protocollo, essendo un paziente a
rischio coronavirus, il 118 avrebbe dovuto trasportarlo direttamente
nel primo reparto di malattie infettive disponibile. Ma a Palermo in
quel momento tutti i posti letto «a pressione negativa», dove devono
essere ricoverati secondo le indicazioni ministeriali i casi sospetti,
erano esauriti. Il Civico non dispone di posti letto dedicati. Così si
decide di trasferire il carabiniere nell’area di emergenza in attesa di
trovare un posto libero. L’uomo viene fatto entrare al pronto soccorso
da un’entrata laterale. A visitarlo è il primario con due infermieri. Per
dieci ore rimane in una stanza di isolamento del pronto soccorso e si
cerca un posto letto in tutta la Sicilia. L’Asp di Catania comunica la
disponibilità di un posto a Caltagirone, all’altro capo dell’Isola a ben
250 chilometri di distanza. Un elicottero del 118 viene allertato. Le
eliche si mettono in moto, ma arriva una comunicazione urgente: a
Caltagirone non sono pronti ad accogliere pazienti Covid, cioè affetti
da coronavirus. Passano altre quattro, cinque, sei ore. Il carabiniere
con la febbre alta e la tosse rimane seduto in una brandina. Soltanto
il
giorno successivo l’Ospedale Civico troverà posto in un suo
reparto.
Ecco una storia emblematica che dà sostegno all’allarme di tutti i
governatori del Meridione all’indomani del boom di malati di
coronavirus al Nord: «Se anche da noi si arriva ai numeri della
Lombardia sarà una ecatombe, una strage», dicono in coro i
governatori di Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. Governatori che
di fronte a una situazione ormai cronica, cioè il pessimo stato della
sanità regionale, si trasformano quindi in sceriffi, minacciando
arresti, multe, quarantene per chiunque, originario delle loro regioni
che lavora o studia al Nord, aveva fatto nel frattempo ritorno. Forse
l’unica mossa, disperata, che gli restava da fare sapendo bene di
non poter certo trasformare dall’oggi al domani i loro sistemi sanitari
per adeguarli a quelli di Emilia Romagna, Lombardia o Veneto.
Poco può fare ad esempio un governatore della Sicilia se negli
ospedali dell’Isola vi sono appena 360 posti di terapia intensiva
davvero funzionanti, a fronte degli 859 della Lombardia, ad esempio:
regione, quest’ultima, che nel pieno dell’emergenza è riuscita quasi
a raddoppiare i posti letto di rianimazione e terapia intensiva
nell’arco di poche settimane. Mentre al Sud l’unica strada è stata
quella di chiudere tutte le sale operatorie per riconvertire le terapie
intensive utilizzate nei vari reparti. Una decisione costosa dal punto
di vista sociale, perché di fatto sono stati rinviati tutti gli interventi
programmati non urgenti. Ma i numeri questi erano e questi sono
anche dopo l’emergenza coronavirus, che ha messo a nudo il reale
divario tra i sistemi sanitari del Paese. Un divario che in questi anni
si è allargato sempre di più, con molte regioni del Sud che sono
state costrette a tagliare la spesa sanitaria perché non riuscivano più
a garantire l’equilibrio finanziario del sistema e da dieci anni e oltre
non fanno una sola assunzione vera di medici e infermieri,
abbassando così ancora la capacità di assistenza sul territorio. E se
è vero che in passato ci sono stati sprechi indicibili nella sanità del
Meridione, e una gestione politica e clientelare che in molti casi
continua ancora e ha abbassato la qualità del servizio facendo
andare via le professionalità di alto livello, è anche vero che da venti
anni a questa parte gli sprechi recenti o meno non bastano più da
soli a giustificare un divario di servizi ai cittadini davvero elevato e
una spesa pro capite del sistema pubblico allargato in ambito
sanitario che è molto differente tra un lombardo e un siciliano o un
calabrese. Il risultato è che esistono sanità del tutto differenti, in
termini di qualità ed efficienza, nello stesso Paese. Secondo la Corte
dei conti
1
, i livelli essenziali di assistenza sanitaria sono molto diversi
da Nord a Sud. La Lombardia, in base ad alcuni parametri, ha un
punteggio di 212, la Toscana di 216, mentre la Sicilia si ferma a 160,
la Campania scende a 153 e la Calabria arriva ad appena 136. E da
questi numeri si capisce bene come l’emergenza coronavirus al Sud
sarebbe stata davvero una strage con gli stessi numeri di contagi del
Nord e perché, ancor prima della diffusione del Covid, già in tempi
«di pace», se così si può dire, il divario era talmente evidente da
giustificare migliaia e migliaia di viaggi della speranza da parte di
malati del Sud verso Nord.
2. Anche i primari del Sud si curano al Nord
Le storie dei viaggi della speranza dal Sud non si contano, ma
proprio recentemente sono venute all’onore della cronaca dei casi
emblematici che fanno capire quanto profondo sia il gap tra le due
parti del Paese. Una storia davvero incredibile è quella di Antonio
Marfella, oncologo, primario del reparto del Pascale di Napoli e
presidente di Medici per l’ambiente. Una vita passata nei corridoi
degli ospedali campani. «Ho fatto le analisi un mese fa, ho il cancro
alla prostata. Non ho difficoltà a far sapere che, pur lavorando al
Pascale, sono in lista di attesa per operarmi all’Ieo di Milano», ha
detto senza molti giri di parole
2
.
«Occhio – chiarisce a scanso di
equivoci – al Pascale ci sono colleghi bravissimi, eccellenti, ma che
non vengono messi in condizioni di lavorare come pure saprebbero
fare. Per il mio cancro devo essere sottoposto a un intervento in
robotica. Le linee guida internazionali del Memorial Sloan Kettering
Center, negli Usa, prevedono che questo tipo di intervento vada
eseguito da strutture che ne facciano almeno 250 l’anno. Nell’intero
Mezzogiorno non esiste alcun ospedale, Pascale compreso, che
superi i 100 interventi alla prostata con il robot. Con meno
allenamento sul robot aumentano le probabilità di errore che per il
paziente, in questo caso, significa rischiare l’impotenza. Io ho
prenotato la visita, il primo novembre mi sono recato lì con mia
moglie. Il primario (che in ospedale è arrivato alle 7,30 del mattino)
mi ha visitato e mi ha fatto eseguire le analisi di rito, poi ho firmato
l’autorizzazione per l’intervento e sono stato messo in lista d’attesa
come tutti i pazienti. Un mese e mezzo dopo, a dicembre, mi hanno
chiamato per l’intervento con il robot. Ora sono felice e, dopo aver
lasciato l’ospedale, sono in pensione. È una brutta sensazione,
certo, ma posso dire di essere in buona compagnia. Ci sono stati
altri medici – per delicatezza non faccio nomi – che hanno optato
come me per Milano».
C’è un altro medico che ammette di essersi fatto curare un cancro
lontano da Napoli, seguendo la scelta annunciata dell’oncologo del
Pascale Antonio Marfella. Si chiama Gaetano Rivezzi, 62 anni, fino a
pochi mesi fa pediatra neonatologo in servizio all’Ospedale
Sant’Anna di Caserta. Nel novembre 2016, grazie a una semplice
ecografia di controllo gli era stato diagnosticato un cancro a un rene.
«In Campania – racconta
3– tutti i colleghi che ho consultato mi
avevano spiegato che era necessaria una nefrectomia totale, in
pratica mi avrebbero asportato un rene. Inoltre, non avevo garanzie
sui tempi di attesa per l’intervento, a meno che non avessi voluto
eseguirlo privatamente, a pagamento. Attenzione, voglio chiarire che
i
miei colleghi sono bravissimi e all’altezza, il problema resta
l’organizzazione della nostra sanità che purtroppo resta fortemente
carente. Mi sono guardato attorno e ho trovato una disponibilità a
operarmi con il robot al policlinico di Careggi in Toscana. Sottolineo,
seguendo la prassi normale e senza alcuna raccomandazione.
Morale: rene conservato e intervento perfettamente riuscito. Di
recente ho fatto un controllo ecografico nella nostra regione e non
c’è più alcun segno della malattia, per me è stato un sollievo
immenso». «Ma lei ha provato a farsi operare a Caserta?
“Francamente non era possibile”».
Lo scienziato Antonio Iavarone in un’intervista al «Mattino» sulle
cure anticancro ha parlato di «terapie di serie B per i pazienti del
Sud che vanno a curarsi al Nord»: «Sono io stesso a suggerire ai
meridionali di andare al Nord però quando entrano in un ospedale
del Nord Italia sono trattati con il protocollo per meridionali, e non per
una forma di razzismo. Una terapia di serie B. Chi si cura fuori sede
dopo qualche tempo è costretto a rientrare. E quindi determinate
terapie che richiedono la presenza del paziente non vengono
neppure iniziate. Per esempio, l’estrazione di cellule immunitarie che
vanno poi rinfuse nel paziente. La terapia basata sulle analisi
genetiche è complessa e però è la sola in grado di portare risultati
perché permette cure mirate e personalizzate». A questo j’accuse ha
risposto Giuseppe Curigliano, il direttore per lo sviluppo di Nuovi
farmaci e terapie innovative dell’Ieo di Milano: «Ma quello che dice il
collega non corrisponde al vero. Qui a Milano adottiamo le più
avanzate sperimentazioni del mondo e nel mio istituto, all’Ieo,
curiamo tantissimi pazienti meridionali con la stessa intensità e
attenzione riservata ai residenti. Anzi, dico di più, anche gli operatori
sono del Sud e l’80% dei miei collaboratori proviene dalla Calabria,
da Salerno, da Napoli. Chiunque venga da queste città riceve
esattamente gli stessi trattamenti sperimentali». Ma a concordare
con Iavarone invece è Michele De Laurentis, primario della
Oncologia medica del Pascale: «Spesso le chemio utilizzate al Nord
per i nostri pazienti sono quelle minimali, in Campania invece su
alcuni
tumori tipizzati geneticamente applichiamo protocolli
avanzatissimi anche rispetto all’Ieo. Semmai noi ci presentiamo
malissimo».
Questi racconti sono emblematici di come il divario tra Nord e Sud
in ambito sanitario sia enorme. I numeri sono impressionanti e lo
confermano.
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