Cochi e Renato – La biografia intelligente – Andrea Ciaffaroni & Sandro Paté

SINTESI DEL LIBRO:
Enzo Jannacci, dicevo. In quasi tutte le mie ricerche si parte da
lui. Occuparsi di Enzo Jannacci, di Aurelio “Cochi” Ponzoni e Renato
Pozzetto non è semplice. La loro storia potrebbe in teoria limitarsi a
quello che comunemente viene definito «il fatto artistico», gli
spettacoli, le canzoni incise, i programmi TV e i film a cui hanno
collaborato. Tuttavia, non è possibile porsi confini netti quando si
parla di quei tre: c’è qualcosa di biografico nelle loro scelte artistiche,
leggerete tantissimi esempi che lo dimostrano in questo libro, ma
d’altro canto c’è anche molto di creativo, originale e fantasioso nella
loro vita di tutti i giorni. Il modo in cui comunicano tra loro, come
raccontano di sé e tutto quel «parlarsi addosso» in attesa del colpo
di genio che faccia ridere tutto il gruppo è molto interessante. Già, il
gruppo. Ecco che cosa mi ha colpito in quel 2001. Era uno dei ritorni
in pista di Enzo: presentazione dell’album Come gli aeroplani, forse il
più duro se si pensa a pezzi come Sono timido o a quello che dà il
titolo al disco. Jannacci per l’occasione sceglie dal guardaroba una
giacca di un colore molto acceso, tra l’amaranto e il rosso Ferrari.
Renato, come scritto, arriva con un impermeabile da agente segreto
e una busta della spesa in mano. Da anni cerco di riscostruire
perché in molti dei suoi blitz dal vivo o in TV sceglie di presentarsi
con questa borsa. Che cosa c’è dentro? Cochi osserva l’ingresso di
Jannacci sul palco del teatro con occhi vispi. Gli amici di un tempo
sono emozionati perché Enzo ha delle nuove canzoni pronte già da
molto tempo e nessuna possibilità di inciderle o suonarle dal vivo. I
tre si salutano. Si abbracciano. Poi Renato dice: «Enzo, se ti vede
Armani, si uccide».
In realtà, un libro che racconta l’amicizia tra queste tre persone
già c’è. Si tratta di una curiosa biografia ambientata in una Milano
tutta da scoprire e da conquistare. Cochi, Renato ed Enzo sono tre
cowboy che tra un panino triplo special da Gattullo, una tappa al
Derby Club e due polpette al Capolinea si confrontano con qualcosa
di ostile: l’«ora seria», il momento in cui il giorno inizia, quando quasi
tutti si alzano per andare a lavorare e la notte milanese purtroppo
finisce. Si tratta di un testo biografico che vale tanto, almeno il
doppio di una normale biografia. In Cochi e Renato, preistoria di una
coppia chiusa in un Pozzetto, 1976, edizione Rino Fabbri, ormai
praticamente introvabile, si racconta la vita artistica e un po’ di
divertita convivenza di Aurelio “Cochi” Ponzoni e Renato Pozzetto.
La collana si chiama Quei due. La penna è di Beppe Viola che
spesso è lì vicino a questo gruppo che vaga e divaga per Milano in
compagnia di personaggi da romanzo con soprannomi che
profumano di antico come Le Mans, Ninone “del Tonno”, Brunella,
Rudy Magnaghi. Lo stile di scrittura del Beppe è roba da letteratura
vera. Basta uno dei suoi attacchi e il lettore è immediatamente in
un’altra epoca, segue un clan che parla in una maniera particolare e
che sembra esibirsi a ogni incontro. Uno spettacolo comico che
cerca di ingannare il tempo e rimandare il momento in cui ci si
saluta. La biografia di Cochi e Renato scritta da Viola si ferma agli
anni Settanta, così io e l’altro autore di questo volume indaghiamo
sugli anni precedenti, per arrivare fino a oggi.
Contatto Cochi e parto proprio dal libro ricordato qualche riga
sopra, per risvegliarne i ricordi: «Prima ancora di conoscersi, C. e R.
si conoscevano già. Uno, biondo con gli occhi chiari e i capelli
morbidi come i materassi a molle, l’altro tutto diverso e sempre
sporco di campagna. Si capiva lontano un miglio marino che il Cochi
avrebbe imparato benissimo l’inglese anche perché ha avuto sempre
la mania delle scarpe con i buchetti qua e là, proprio come si usano
in Inghilterra. E poi il Cochi aveva un’altra impostazione nel ridere,
nel discutere, nel celebrare la festa di S. Martino, insomma, si capiva
che presto o tardi il Cochi avrebbe inventato qualcosa».
«Cochi, che cosa avete inventato tu, Renato ed Enzo?»
«Se abbiamo inventato qualcosa l’abbiamo fatto sicuramente
senza volerlo. Probabilmente abbiamo creato un linguaggio
innovativo che è riuscito a trovare spazio in quello del mondo dello
spettacolo».
«Linguaggio che rifiuta le regole, per andare fuori dagli schemi.
C’era qualcuno che voi guardavate come esempio?»
«Senza dubbio, Dario Fo. Sono cresciuto vedendo le sue farse e
mi ha appassionato a teatro insieme agli altri grandi nomi. Sin da
quando ero ragazzino ero molto interessato anche alla comicità
inglese. Ero grande fan dei primi Monty Python e sono diventato
grande amico di Jonathan Routh, autore di programmi TV e
inventore della Candid Camera. Sono stato anche suo testimone di
nozze. Poi, oltre a questo bagaglio, ci sono state le nostre
farneticazioni che erano sempre basate sul nostro modo di divertirci
quando stavamo insieme. Su Milano il nome che per me e Renato è
stato un esempio è stato proprio Enzo Jannacci. Lui parlava in
maniera poetica della città, dei suoi personaggi e infilava queste
cose nel cabaret. Poi, quando l’abbiamo frequentato, ci ha regalato
la sua amicizia e ci ha insegnato la disciplina. Quando noi ci
avventuravamo nel mondo del cabaret era già affermato ma diceva a
tutti che voleva star con noi e ci faceva leggere testi importanti come
Mrożek, Ionesco o autori russi. E poi grandi risate…»
«Come è entrato nelle vostre vite?»
«La prima volta che l’ho visto era al Santa Tecla. Enzo, al piano,
accompagnava Giorgio Gaber e Maria Monti, una coppia nello
spettacolo ma allora anche nella vita. Ricordo Jannacci attaccato a
un pianoforte a muro. Gaber, a un certo punto, lo ha presentato
come un amico che aveva scritto alcune canzoni. Lui ha preso la
chitarra e ha cantato Il cane con i capelli e L’ombrello di mio fratello.
Io mi sono innamorato perdutamente. Avrò avuto intorno ai sedici
anni».
«Te lo confido, Cochi: da anni colleziono articoli di giornale che
parlano della vostra vita notturna. Uno degli argomenti che torna più
spesso è come Milano fino agli anni Ottanta fosse una città che si
potesse frequentare di notte. Ma perché già a sedici anni vi
lasciavano fare così tardi?»
«Allora di quelli come noi si diceva “birichini”. I nostri genitori, sia i
miei che quelli di Renato, ci davano libertà e ci lasciavano tornare a
casa tardi. Alcune volte, troppo tardi. Ammetto di aver avuto troppa
libertà da mia mamma. Anche se qualche suo cazzotto me lo
ricordo. Milano era non-stop. Il nostro primo spettacolo di cabaret
alla Muffola di Velia e Tinin
Mantegazza fu in occasione di uno dei loro vernissage, che
iniziavano a mezzanotte».
«Le osterie di Milano sono state “una grande enciclopedia
umana” (Cochi, cit.) e il Bar Gattullo “un grande laboratorio
gastronomico-teatrale” (Viola, cit.). Vi trovate tutti lì all’epoca e
Renato ha dichiarato recentemente che il maggiore orgoglio è stato
quello di essere rimasto “quello del bar”. Come si fa oggi a far capire
che cosa faceva nascere quest’arte dell’incontro?»
«Nel caso mio e di Renato tutto è nato con i frequentatori dell’Oca
d’Oro. Lì, grazie a un amico che andava all’accademia (di Brera,
n.d.a.), abbiamo conosciuto Piero Manzoni, Lucio Fontana, Dino
Buzzati e altri artisti che sono stati il nostro primo pubblico. Li
abbiamo frequentati e vedevamo ciò che facevano in totale libertà.
Non posso scordare le linee di Manzoni. Li venivamo totalmente
appagati. Con le nostre canzoni, gli stornelli e i primi sketch si
divertivano tantissimo. In quei luoghi nascevano anche le prime
canzoni perché si potevano provare e mettere a punto serata dopo
serata. Gioco forza, grazie a questo tipo di ambiente anche noi
siamo caduti nella trappola del cabaret. Ti assicuro che era facile
tirare
mattina, dormire sui banchi di scuola e invertire
completamente la notte con il giorno. Quando, poi, abbiamo
cominciato con il cabaret l’inversione è stata completa».
«La vita di Cochi e Renato, se fosse un romanzo, sarebbe proprio
Tirar mattina, splendido romanzo di Umberto Simonetta… Sei
d’accordo?»
«Romanzo bellissimo, un vero e proprio affresco della città di un
tempo. Dʼaltronde Simonetta era un grande autore e operatore
culturale visto che per anni gestì la programmazione del teatro
Gerolamo, luogo in cui Enzo si è esibito in un mitico spettacolo con
Dario Fo. Umberto aveva qualche anno più di noi, ma
frequentavamo gli stessi luoghi. Nel gruppo era famoso perché a un
certo punto ereditò molti soldi da una zia venuta a mancare. La
vecchia mala di allora, che noi conoscevamo molto bene, per quelli
ben messi sotto il profilo economico usava la definizione “uno caldo
alla punta” e poi faceva loro una carezza sulla guancia come a dire
“troppa fatica, ti è andata bene”… »
«A Milano girano molti aneddoti sul gruppo di artisti che avete
intercettato. Si dice che Fontana regalasse opere per pagare i conti.
Nel caso prendeva una forchetta e tagliava una tela. Siete mai stati
influenzati da questo tipo di gesto artistico, il desiderio di fare
qualcosa di autenticamente d’avanguardia?»
«Più che influenzarci, quel gruppo di artisti ci ha incoraggiato. Era
gente che prendeva rischi sulla propria pelle. Se si pensa a Piero
Manzoni, per esempio, bisogna ricordare un uomo con delle idee
forti sull’arte, la società e la vita, che purtroppo è morto molto
giovane. Artisti come lui hanno gonfiato il nostro coraggio con la loro
filosofia di vita e il loro approccio al mondo, sdrammatizzando, per
esempio, tutto il contesto economico e opportunistico. Solo con
quell’atteggiamento probabilmente potevamo pescare dentro di noi il
coraggio di fare quello che abbiamo fatto».
«Parlando di opportunità, impossibile non pensare al Bongio e al
Derby. È stata la vostra grande occasione?»
«Bongiovanni era completamente al di fuori dal mondo della
cultura, però era un grande appassionato del cabaret francese.
Grande sensibilità, ottimo intuito. Vista l’ignoranza rispetto a come
funzionavano le cose in quel periodo, oggi bisogna riconoscergli il
grande merito di aver trasformato un albergo con ristorante aperto
appositamente per chi andava al Trotter a scommettere o a lavorare,
come i fantini, in un locale molto diverso. Il Derby era ricco di
proposte, ma soprattutto si differenziava grazie a quelle persone.
Sai, l’ambiente degli scommettitori è molto affascinante. Basta
pensare al modo di parlare di Beppe Viola per comprendere questa
influenza. Il Bongio ha assorbito gli stili di queste categorie di
persone, si è fatto carico di gestire un locale e nei suoi ultimi anni ha
pure iniziato a dipingere. Era molto naïf».
«Anche grazie a lui, la vostra compagnia, il mitico Gruppo Motore,
tiene banco per un po’, giusto?»
«Sì. Il successo è stato esagerato. I nomi erano importanti. Su
uno stesso palco c’eravamo io e Renato, Felice Andreasi, Lino
Toffolo, Bruno Lauzi ed Enzo Jannacci. Facevamo tre spettacoli a
sera e in alcuni periodi dell’anno non si faceva neppure il turno di
riposo. Il Bongio e l’Angela mandavano via centinaia di persone ogni
sera. Tanto è vero che proprio il Bongio fece di tutto per “gonfiare” la
sala a trecento posti. Operazione abbastanza impossibile, pur
essendosi arrovellato il cervello per sfruttare ogni centimetro del
locale».
«Pur appartenendo allo stesso periodo, allo stesso clan e allo
stesso genere di comicità, tutti voi avete creato un vostro stile, un
modo di parlare e un vero e proprio linguaggio peculiare. Felice
Andreasi era molto diverso da Cochi e Renato che a loro volta
usavano espressioni differenti da Walter Valdi. Per costruire il vostro
mondo dove si pescava?»
«La fonte erano le storie incredibili che a volte si ascoltavano
seduti al Bar Gattullo. Discorsi alcune volte assurdi e racconti,
chissà, magari neppure di vita vera. Non è che fossero determinanti
ma erano input molto stimolanti».
«Ancora Beppe Viola dal suo libro su Cochi e Renato:
“L’ambiente è costituito da miliardari presunti, nel senso che
osservandoli bene da vicino si scoprono dei poveri cristi che
consumano champagne e maionese proprio come i principi russi
prima della famosa rivoluzione che li ha costretti ad andare al casinò
di Montecarlo e a costruire la chiesa ortodossa appena dietro lo
striscione d’arrivo della Milano-Sanremo…”»
Cochi ride e aggiunge:
«Disgrassià e tanta malavita che girava di notte. Mina, Tognazzi,
Manfredi arrivavano da lontano pur di sostenerci e persone di ogni
razza prima o poi capitavano al Derby».
«Alberto Lupo un giorno dice a Lino Toffolo: “Perché non vieni al
Derby? C’è uno pazzo come te”. Era Enzo Jannacci. Nei locali,
quando voi eravate ventenni si arrivava così. Come si debutta invece
in TV?
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