Cento secondi in una vita – Andrew Faber

SINTESI DEL LIBRO:
Il signor Rebaf si presentò in perfetto orario all’appuntamento. D’altronde, lo
studio della dottoressa Minghetti era a soli otto chilometri da casa sua.
Gli addobbi di Natale imperavano fieri su ogni vetrina del corso, tingendo
di un bel colore rosso l’aria fresca di dicembre. A breve quelle strade
sarebbero state invase da urla, fuochi d’artificio e auguri di ogni genere,
insomma, tutto ciò che rende magico l’arrivo del nuovo anno, che ormai era lì
lì per compiersi, puntuale come sempre.
La targa di fianco al portone d’ingresso riportava fedelmente: “Dottoressa
Annalisa Minghetti – psicoterapeuta” e, poco più sotto: “Specializzata in
psicoterapia breve strategica”.
Rallentando il passo, ripensò alla conversazione telefonica avvenuta
appena qualche ora prima.
«Buongiorno, dottoressa. Ho trentanove anni, sono quattro giorni che non
chiudo occhio e lei è la mia ultima speranza di sopravvivenza.»
«Buon… Buongiorno a lei. Con chi ho il piacere di parlare?»
«Sono il signor Rebaf.»
«Mi ascolti, signor Rebaf…»
«Dica pure, dottoressa.»
«Come ha avuto il mio recapito telefonico?»
«Ho digitato su Google: “Psicoterapeuta Comune di Marino – Roma”. E
lei è stata la prima che ho trovato in cima alla lista.»
«Capisco. E ora dove si trova, precisamente?»
«Sono in casa.»
«C’è qualcun altro insieme a lei?»
«No, sono da solo. Ho urgente bisogno di incontrarla di persona.»
«Signor Rebaf, attualmente mi trovo fuori Roma. Sono le sette di mattina
del 31 dicembre. Comprenderà la mia difficoltà. Le chiederei di fissare un
primo colloquio conoscitivo, è una cosa di cui entrambi necessitiamo.»
«Mi creda, non l’avrei contattata se non fosse una situazione
d’emergenza.»
«Cosa intende per emergenza?»
«Non so come arrivare ai prossimi trenta secondi.»
«Signor Rebaf, mi ascolti. Intanto cerchi di calmarsi respirando, prof…»
«Dottoressa?»
«Sì?»
«Sono disposto a rimborsarle tutte le spese di viaggio per il rientro, ma la
prego di ricevermi in giornata.»
«Guardi… non riuscirò a essere in studio prima di un’ora e mezza.»
«Vedrò di resistere.»
«L’attendo per le nove in via Corinaldo, civico 14.»
«Conosco l’indirizzo.»
«Bene. A fra poco, allora.»
Agganciato il telefono, il signor Rebaf aveva fatto una doccia confidando
nell’effetto rilassante dell’acqua bollente (che non era arrivato), si era vestito
valutando la possibilità di sudare copiosamente di fronte a domande
complesse da parte della dottoressa e, un respirone dopo l’altro, un pensiero
dopo l’altro, un’extrasistole dopo l’altra, si era incamminato.
Passeggiare lo aiutava a gestire meglio lo stato di agitazione in cui
versava; rumori, profumi e immagini di gente impegnata a fare cose lo
obbligavano a non pensare in maniera compulsiva al suo disagio, ma
soprattutto, una volta giunto a destinazione, non avrebbe dovuto perder
tempo nel cercare posto per l’automobile. E il tempo, in situazioni come
quella del signor Rebaf, vale molto, molto più di quanto si possa banalmente
immaginare.
Aveva superato un lungo viale alberato costeggiato da panchine in stile
liberty che terminava in una piazza con al centro una fontana di dimensioni
piuttosto generose. Aveva ricordato di averla vista sgorgare vino frizzante nei
periodi di sagra.
Aveva respirato profondamente, cercando di rallentare un poco il battito
cardiaco. Non sembrava funzionare; dunque era passato al piano B: pensare a
qualcosa di assolutamente vero. D’infinitamente bello. Qualcosa che neppure
l’ansia avrebbe potuto scalfire coi suoi stupidi meccanismi mefistofelici.
Aveva pensato alla Canzone dell’amore perduto di Fabrizio De André: Ma
sarà la prima che incontri per strada / che tu coprirai d’oro per un bacio mai
dato / per un amore nuovo.
Così era arrivato davanti al portone dello studio della dottoressa e in quel
momento, con De André che gli risuonava ancora in testa, si era accorto di
quanto gli mancasse una persona a cui poter raccontare tutto, con cui
condividere la quotidianità, dalle cazzate del lavoro ai viaggi d’estate, dalla
caldaia bloccata d’inverno con lo shampoo nei capelli alle notti passate senza
chiudere occhio per la fottuta paura di sognare.
Citofonò.
«Secondo piano» rispose quella stessa voce giovane e squillante che gli
aveva parlato al telefono.
Prese l’ascensore, per avere un’ultima possibilità di specchiarsi prima
dell’incontro. Non fu un bello spettacolo. Trovò la porta leggermente
socchiusa.
«Venga pure avanti.»
Alla fine del corridoio, fu accolto da una donna di trentacinque anni, forse
qualcuno di più, vestita in modo non elegante, ma ordinato. «Prego, si sieda.»
Il signor Rebaf prese posto di fronte alla scrivania di legno.
«Ci terrei a scusarmi innanzitutto per averla fatta rientrare in una giornata
di ferie, ma soprattutto in un modo così insolito.»
«Non si preoccupi. Fa parte del nostro lavoro» disse lei. «È mai stato
seguito da un terapeuta?» gli domandò.
«No, mai. È la mia prima volta.»
«Bene. Quanti anni ha?»
«Trentanove.»
«Vive da solo?»
«Sì.»
«Da molto tempo?»
«Sei mesi circa.»
«Sciolga le mani.»
«Prego?»
«Guardi le sue mani.»
I pugni chiusi ricordavano un pugile pronto a indossare i guantoni e salire
sul ring, più che un uomo in procinto di illustrare la sua storia.
«Ah. Non me ne ero reso conto.»
La dottoressa sorrise. «Mi racconti cosa le è successo.»
«Credo di aver avuto un attacco di panico. Ero in macchina, due giorni fa.
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