Breviario – Søren Kierkegaard

SINTESI DEL LIBRO:
ssai noto è il giudizio di Salomone. Egli seppe separare la verità
dall’inganno, e, in quanto capace di equo giudizio, acquistò la fama
di principe saggio. Meno noto, invece, è il suo sogno.
Un tormento può avvelenare l’affetto: la vergogna che si è costretti
a provare per il proprio padre, per colui, cioè, che sopra ogni altro si
ama, colui cui tanto si deve; quando si è costretti ad avvicinarsi a lui
di soppiatto, distogliendo lo sguardo per non vedere la sua miseria.
Quale suprema beatitudine dà invece poter amare il padre, come è
desiderio del figlio, avendo insieme la felicità di poterne essere
superbi poiché è l’eletto, la forza di un popolo, l’orgoglio di un paese,
l’amico di Dio, la promessa del futuro, lodato in vita, esaltato nella
memoria! – Oh, felice Salomone, ché tale era la tua sorte! – In
mezzo al popolo eletto... egli era il figlio del re... il figlio del re che era
l’eletto tra tutti i re!
Così Salomone viveva felice presso il profeta Nathan. La forza e le
grandi imprese del padre non lo spingevano nell’emulazione, in
quanto esse gli apparivano ormai precluse, ma lo accendevano
d’ammirazione, e l’ammirazione fece di lui un poeta. Ma se il poeta
era quasi geloso del suo eroe, il figlio era beato nella sua dedizione
al padre.
Una volta il giovane andò a visitare il regale genitore. Nella notte,
a un tratto, si svegliò, udendo rumore dove il padre dormiva. Lo
colse la paura, temette che qualche sciagurato volesse assassinare
il
re. Si avvicina furtivamente – e vede David abbandonato alla
contrizione del cuore, ode il grido di disperazione che viene
dall’anima del penitente.
Quasi in deliquio si trascina nuovamente sul suo letto, si
addormenta, ma non riposa, sogna; sogna che David è un ateo
reietto da Dio, che la maestà regale è l’ira di Dio su di lui, che egli
deve portare la porpora come un castigo, che è condannato a
regnare, condannato ad ascoltare le benedizioni del popolo mentre
la giustizia del Signore segretamente e silenziosamente lo giudica. E
il sogno suggerisce che Dio non sia il Dio dei pii ma il Dio degli atei,
e che si debba essere ateo per essere eletto di Dio, e questo
paradosso è l’orrore del sogno.
Come David giaceva a terra col cuore spezzato, Salomone, nel
suo letto, sentiva infranta la sua ragione, ed era pervaso di orrore,
considerando il vero senso dell’elezione divina, intuì che la
spiegazione non era la confidenza del santo con Dio, la sincerità del
puro davanti al Signore, ma che la colpa interiore era il segreto che
spiega tutto.
E Salomone divenne saggio, ma non un eroe; divenne un
pensatore, ma non un devoto; divenne un predicatore, ma non un
credente; poté aiutare molti, ma non se stesso; fu un libertino, ma
non un pentito; fu spezzato, ma non consolato, perché la forza della
sua volontà si era contorta contro un ostacolo che oltrepassava le
sue possibilità. Visse inebriandosi della vita, forte, disumanamente
forte nella chiarezza del pensiero, ma femminilmente debole nelle
mirabili e seducenti invenzioni della fantasia. Nella sua vita, era però
penetrato l’interiore dissidio, Salomone era come un malato che non
può reggere il suo stesso corpo. Come un vecchio estenuato sedeva
nel suo harem finché in lui si ridestava il desiderio; gridava:
«Suonate i tamburelli, danzate per me, donne!». Ma quando la
regina d’Oriente venne a trovarlo, attratta dalla sua saggezza, la sua
anima fu ricca e le risposte sagge fluirono dalle sue labbra come la
preziosa mirra che scorre dagli alberi d’Arabia.
Gilleleje, 1 agosto 1835 (ventidue anni).
Quello che mi manca, in sostanza, è di chiarire a me stesso ciò
che devo fare, non ciò che devo conoscere prescindendo da quella
conoscenza che deve sempre precedere l’azione.
Devo cioè comprendere a che cosa sono destinato, che cosa Dio
vuole veramente che io faccia; devo trovare una verità che sia la mia
verità, per la quale vivere e morire...
Questo mi ha impedito finora di condurre una vita pienamente
umana e non soltanto conoscitiva, sicché il fondamento per la
costruzione del mio pensiero non è la cosiddetta oggettività, cioè
qualcosa che in nessun caso mi appartiene, ma qualcosa che è
legata alle più riposte radici della mia esistenza, e nello stesso
tempo, mi fa essere in Dio, unito profondamente a Dio, anche se il
mondo intero andasse in rovina.
Ho gustato i frutti dell’albero della conoscenza, e mi sono spesso
deliziato del loro sapore. Ma questa gioia è esistita soltanto
nell’istante della conoscenza e in me non ha lasciato tracce più
profonde. È come se non avessi bevuto al calice della saggezza ma
ci fossi caduto dentro...
Prima di conoscere qualsiasi altra cosa si deve imparare a
conoscere se stessi. Soltanto dopo che l’uomo ha compreso
intimamente se stesso e scorto il cammino che deve compiere, la
sua vita acquista calma e significato, egli viene liberato da quel
compagno di viaggio opprimente e fatale... da quella ironia della vita,
che si manifesta nella sfera della conoscenza e che impone alla vera
conoscenza di cominciare con un non-conoscere, così come Dio
creò il mondo dal nulla.
Il mio punto di vista è la neutralità armata.
Il tragico si manifesta nell’impossibilità di avere qualcuno che ci
comprenda, ciò che è espresso così bene nella Genesi, quando
Adamo dà un nome a tutti gli animali, ma non ne trova uno per sé.
La gente mi capisce tanto poco da non capire neppure il mio
lamento sul fatto che non mi capisce.
Tutti, in fondo, sanno che ho ragione, perfino il vescovo Mynster; e
che non mi si rende giustizia lo sappiamo tutti – anch’io.
Ogni verità, infine, è verità soltanto fino a un certo grado. Se va
oltre questo, subentra l’antitesi, diventa non-verità.
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