Bel casino l’amore! – Elisa Trodella

SINTESI DEL LIBRO:
Con Riccardo non si era trattato di un vero e proprio colpo di
fulmine, ma la vicinanza che ci accomunava ci aveva portato a
incontrarci spesso e, una volta rotto l’imbarazzo di scoprirci
interessati l’uno all’altra, dopo un invito a cena e un film al cinema…
facevamo già l’amore. Mi ero trasferita da pochi mesi nel suo stesso
palazzo, a causa di una brutta storia finita male, durata quattro anni
e perfettamente in grado di distruggere la mia autostima: Massimo, il
massacratore, mi aveva praticamente buttato fuori da casa sua. Ed
era stato un autentico trauma, visto che mi ero trasferita a Roma per
lui, o meglio, a causa di lui, ragionando con il senno di poi. A Monte
Arcobaleno, la mia cittadina natale – un comune italiano nella
provincia di Bolzano con poco più di cinquemila abitanti – tanto
incantevole e fiabesca quanto monotona e silenziosa, avevo poco
più che una madre giovane e, ahimè, ancora inesperta (chissà
quando avrebbe smesso di interpretare questo ruolo…), un padre
inesistente, da sempre dedito al gioco più che alla famiglia, pochi
amici annoiati e una valanga di sensi di colpa maturati negli anni,
che proliferavano velenosi come funghi… senza validi o apparenti
motivi, più o meno come i tic e le fobie che fanno parte di me. Cioè,
diciamo pure che mi possiedono totalmente. Meglio ancora, che
pilotano la mia vita.
Dialogare con l’universo attraverso rituali, gesti meccanici e, va
bene lo ammetto, a volte convulsi, nella speranza di ricevere in
cambio null’altro che sicurezza, gioia e serenità, è uno dei tanti
metodi che adotto per sfuggire a una realtà che poco mi piace e
ancora meno mi convince. D’altronde ognuno ha la sua, e la mia è…
ehm, questa.
Scagli la prima pietra chi è senza peccato.
A soli vent’anni, seguendo le orme di mia madre, la mia carriera di
aiuto-cuoca, o meglio di sguattera in cucina negli alberghi più o
meno esclusivi del Paese, era già ben avviata e, quando conobbi su
internet Massimo, un ragazzo di buona famiglia già autonomo e
indipendente, non ci misi molto a immaginarmi libera di scorrazzare
tra le strade allegre di Roma insieme a lui, senza troppi pesi e attività
gravose sulle spalle così, quando mi chiese di raggiungerlo, ero
praticamente già lì.
Avevo messo proprio tutto in valigia, compresi i sensi di colpa, che
di botto si erano quadruplicati con un’impennata da premio Nobel.
Mia madre salutandomi mi aveva detto: «Ti aspetto…», abbassando
la voce quel tanto che bastò a renderla ai miei occhi ancora più
debole e fragile di sempre, e non compresi subito la premonizione
nascosta dietro quella frase.
Comunque ero partita, e sorvolerei sull’ansia che mi aveva
attanagliato per l’intera durata del viaggio in treno, sull’infinità di gesti
scaramantici che avevo dovuto esibire in pubblico e sul numero di
posti che avevo cambiato per sentirmi meno in pericolo. Di cosa? Di
vita, mi sembra chiaro!
Ma la voglia di raggiungere Massimo, scrollandomi di dosso tutto
ciò che mi aveva paralizzato per anni, era tanta, così avevo vinto
parte delle mie paure ed ero giunta a Roma.
Mi ero data subito un gran da fare e, poco dopo, ero stata assunta
in una società di ricerche di mercato, dove non dovevo far altro che
tediare al telefono una quantità innumerevole di individui malcapitati,
memorizzati sul monitor del computer di fronte a me, sottoponendo
loro questionari lunghi una quaresima a cui dovevano rispondere
punto per punto. Lavoravo dalle 9:00 alle 16:00, con una sola pausa
di mezz’ora; la paga era appena sufficiente ma, dividendo le spese
con Massimo – avevo insistito io perché fosse così – mi permetteva
di condurre una vita dignitosa.
In pratica passavo una buona mezza giornata a farmi mandare a
fanculo al telefono, con inconsulti e irragionevoli picchi di euforia le
volte in cui ciò non accadeva, e poi tornavo da lui, l’uomo che a mio
parere mi aveva salvato da una vita già scritta. All’inizio mi era
sembrato un buon compromesso, ma di vita ne stavo scrivendo
un’altra e, trovandomi solo al primo Capitolo, non ne avrei
conosciuto i cavilli rovinosi fino a quando non mi ci fossi
ingarbugliata dentro.
Le familiari montagne verdi di Monte Arcobaleno, che con il clima
più rigido si ricoprivano di un manto lucido e bianco, erano state
spazzate via da imponenti monumenti cerulei così come, poco alla
volta, il carattere bipolare di Massimo – se per bipolare intendiamo
una persona che dapprima ti supplica di andare a vivere insieme a
lui e in seguito non smette di rinfacciarti di averlo realmente fatto
aveva ucciso il mio entusiasmo. E fine di tutto. Niente più sesso,
niente più sogni. Niente di niente. Ci eravamo trasformati in una
coppia di coniugi ultraottantenni, senza avvertire nemmeno la
serenità e la solidità del trascorso insieme che dovrebbe
naturalmente conseguirne.
Forse ero stata troppo invadente quando mi ero catapultata nel suo
mondo, troppo entusiasta, troppo giovane, troppo dipendente, troppo
poco con i piedi per terra, ma gli avevo regalato senza riserve i miei
vent’anni, con tutto ciò che di bello e puro spontaneamente
custodivano, con la forza e l’umiltà dettati dalla semplice
riconoscenza per avermi accettato nella sua vita, quasi fossi un
animale raccolto dalla strada.
Quando mi lasciò, telefonai in lacrime a mia madre… E lei mi disse
senza esitazione: «Ti aspetto…». Mentre con tutta probabilità era
indaffarata a fare altro, considerando il suono strozzato della sua
voce, tanto che la immaginai intenta a trattenere il telefono tra spalla
e collo.
In quel momento il suo mondo complicato, a volte fin troppo
semplice, mi piombò di nuovo addosso come un corpo morto,
investendomi di ansia, paura, malessere e, nonostante non facessi
altro che alimentare nuovi e potenti sensi di colpa, giurai a me
stessa che mi avrebbe atteso invano.
In quegli anni ero andata a trovarla poche volte, quelle che
bastavano a concedermi un po’ di respiro dal rimorso per averla
davvero lasciata. Lei… e la sua depressione, spesso interrotta da
eccessi di ogni tipo, che non facevano altro che alimentare la mia
costante voglia di scappare. Natale, Pasqua, qualche giorno e via:
meglio rigorosamente sola, ma di anno in anno sempre più avvilita e
rabbiosa, nello scoprire che nulla era cambiato.
Mi rimboccai ancora le maniche e per fortuna fui ospitata da Marta
per parecchi mesi, la mia collega di lavoro e inaspettata migliore
amica conosciuta a Roma, più grande di me di qualche anno, più
solida e stabile di immutabili ere geologiche. Un giorno, quasi per
caso, atterrai come un uccello migrante nella vita e nel palazzo di
Riccardo, con un cucciolo di cane stretto al cuore, che Marta stessa
aveva infiocchettato e incaricato di farmi sentire speciale e di
amarmi, sempre, colmando i miei vuoti sconfinati.
Nel frattempo i miei contatti con l’altro sesso erano stati fiammiferi
accesi all’improvviso e spenti con il primo alito di vento.
Soddisfacenti comunque. Adoravo fare l’amore; in quei piccoli gesti,
effusioni, baci, scorgevo sempre una luce in fondo al tunnel. Quella
luce che ti dice: sei arrivata, lui domani potrebbe richiamarti. E
Riccardo mi richiamò. Lo fece solo per ovviare all’imbarazzo di
doverci incontrare nell’androne del palazzo o in fila al supermercato?
Me lo chiesi.
C’è di vero che la luce che avevo scorto era molto flebile e, infatti,
non ero arrivata proprio da nessuna parte, anzi, era stato Riccardo a
trasferirsi da me dopo solo qualche settimana di frequentazione,
abbandonando finalmente il tetto dei genitori. Che per inciso
corrispondeva al nostro pavimento.
Riccardo era un uomo di trentaquattro anni e, nonostante non fosse
perfetto (anteporrei la parola “affatto” a “perfetto”) dimostrava di
volermi bene, aveva un buon lavoro e sessualmente era
soddisfacente. Che dire, abituata al peggio, in alcuni momenti mi
sembrò addirittura un regalo divino.
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