Androphilia – Emiliano Di Meo

SINTESI DEL LIBRO:
Vengo a sapere della morte della vecchia Ada mentre sono al bar. Mi
sveglio molto presto, tutti i giorni, e sono sempre affamato di mattina. Faccio
colazione a casa, ma ho l’abitudine di prendere un secondo caffè appena esco.
Lo faccio da sempre. Ed è proprio mentre sono al bancone del bar, intento a
gustarmi la mia seconda dose di caffeina, ancora avvolto nel cappotto, che mi
riferiscono della sua dipartita. La cosa non dovrebbe sorprendermi più di
tanto, eppure lo fa. Non so con esattezza quanti anni avesse, ma sono certo
che nella sua lunga vita abbia quasi raggiunto le novanta primavere. Me la
ricordo già anziana quando io ero solo un ragazzo. Ormai era vecchia e
malata, lo era da tempo, eppure mi stupisce la sua morte. Ci sono persone che
non sembrano destinate ad andare via o a lasciare questo mondo. Persone che
la vita è riuscita a forgiare al punto da renderle quasi degli esseri sovrumani.
Ada era per tutti noi una creatura oltre l’umano. Alla sua età cucinava,
badava agli animali da sola, rammendava i suoi vestiti e, caparbia, trovava il
modo di arrampicarsi lungo le ripide vie del nostro impervio paese. Spesso ti
guardava con quei suoi occhi paludosi, in cui il verde dell’iride sembrava
aver travalicato i propri confini per mescolarsi al bianco della sclera, e avevi
l’impressione che potesse leggerti.
«Hai le tue zone d’ombra, ma non sei un uomo cattivo.» Questo
quanto mi disse un pomeriggio in cui non avevo davvero bisogno di altre
parole.
Attraversavo uno di quei periodi, magari è una cosa che capita un po’
a tutti, in cui ti domandi se non sia tu il responsabile, colui che, per amor del
paradosso, ti impedisce di ottenere quello che vuoi davvero. Mi sentivo al
buio, in lotta con me stesso, e lei sembrò percepirlo, per poi darmi la sua
chiave di lettura. Così, dal nulla.
«Ci sono persone che, non importa quanto si sforzino, non
assomiglieranno mai al proprio sfondo. Smetti di limitarti.»
Ricordo ancora come me lo disse, con quel modo di parlare tipico
delle persone capaci di accompagnare le parole con un’attitudine del corpo
che rende il corpo stesso comunicazione.
Finisco di bere il mio caffè e mi trattengo qualche istante con i gomiti
poggiati sul bancone. Lei era la memoria storica del nostro piccolo paese e
salutarla, vuol dire salutare un’epoca e doverne accogliere una nuova.
«Ciao Lupo, hai saputo di Ada?» domanda Franco, uno degli amici
con i quali mi incontro qui ogni mattina.
Tutti in paese mi chiamano Lupo, ma il mio vero nome è Pietro. Mi
affibbiarono questo soprannome per il mio carattere. Taciturno e solitario,
ma, in fondo, legato alla comunità.
«Ora, l’ho saputo proprio ora. Ne stavamo parlando poco fa,»
rispondo ancora sorpreso.
«Chi l’avrebbe mai detto? Nessuno si aspettava che sarebbe successo,
così di punto in bianco poi. Ada sembrava aver addomesticato persino la
malattia,» osserva e ha ragione.
«È vero,» concordo e sorrido appena.
Quanto ha detto è assolutamente vero. Ada sembrava inarrestabile.
Una donna in grado di poter fare qualsiasi cosa, anche prendersi gioco della
morte. Se lo avesse fatto, non avrebbe sorpreso nessuno di noi.
«Ho sentito che Marco è già in viaggio,» prosegue Franco.
Non vedo Marco da anni. È l’unico tra i figli di Ada a essere andato
via da questo paese dimenticato da tutti. L’unico che ha avuto il coraggio di
concedersi un’opportunità di vita altrove. Non ricordo se sia l’ultimo o il
terzo dei quattro figli dell’anziana donna, ma è sicuramente il più
avventuroso e quello con una visione più moderna del mondo.
Siamo stati buoni amici durante l’adolescenza e anche negli anni della
prima giovinezza. Quando si trasferì in Irlanda, mi invitò più volte. Lo fece in
diverse occasioni, ma non l’ho mai assecondato. Non so neppure io perché,
ma non ho mai amato viaggiare. Lui viveva lì con sua moglie, già si erano
conosciuti quando decise di trasferirsi, e subito dopo divenne papà e mi
sembrava non avessimo più molte cose in comune.
«Non lo vedo da un sacco di tempo,» rispondo e Franco annuisce.
«Com’è ironica a volte la vita, no?» domanda e mi guarda quasi
aspettandosi che io colga il senso della sua riflessione, ma non è così.
«Perché la trovi ironica?» chiedo, soffiandomi il naso.
«Beh, lui trascorre gli ultimi quindici anni in un altro paese e proprio
quando decide di tornare, sua madre muore. Se non è ironico questo,» dice
alzando le braccia.
«Marco pensa di tornare a vivere qui?» non riesco a nascondere la
mia incredulità.
«Sì, me lo stava raccontando suo fratello, qualche giorno fa. Quello
alto, il più alto dei quattro. Non ricordo mai i nomi e li confondo tra loro, si
assomigliano tutti… Vabbè, fatto sta che aveva già deciso di tornare per
riprendere a lavorare con i fratelli e vivere qua. Tornare alla sua vecchia vita,
insomma. La morte della madre non ha fatto altro che metterlo nella
condizione di anticipare tutto.» Franco mi racconta quello che sa e scuote la
testa.
Sì, forse ha ragione. La vita ha uno strano senso dell’umorismo a
volte.
Saluto Franco e, prima di uscire dal bar, indosso il mio cappello di
lana e abbottono il cappotto. Gli inverni da noi sono rigidi, ma rigidi sul
serio. Viviamo in questo piccolo paese incastonato tra i tornanti di una catena
montuosa impervia e se in alcuni periodi questi monti ci fanno sentire
protetti, quasi parte di un territorio che ci considera di sua proprietà, in altri ci
sentiamo isolati, come se, al di fuori di queste poche centinaia di anime, non
ci fosse nessun altro essere umano al mondo. Noi, gli orsi che di tanto in
tanto fanno irruzione in centro, le volpi e i daini che ci tagliano la strada, i
lupi che ci scrutano come fossimo esseri inferiori a loro. Gli alberi, la neve e
il silenzio.
Ho avuto l’opportunità di andare via da questo paese, ma non l’ho mai
colta. Ce l’avrei ancora, potrei farlo. Metà delle persone che posso incontrare,
girando dove vivo, lavorano per me o per la mia famiglia. Nostro è il
ristorante che va per la maggiore, nostro l’impianto termale a pochi
chilometri da qui, nostri alcuni degli appartamenti appena fuori dal centro e
tutti regolarmente affittati. Potrei vivere ovunque desiderassi, ma, ogni volta
che mi ritrovo in una grande città, sogno di tornare esattamente in questo
posto. Questa è davvero la mia terra, la mia tana. Sono uno dei lupi di questi
boschi.
Mi reco in città sempre più di rado con il passare degli anni. In effetti,
ora che ci rifletto, sono solo due i motivi che mi portano a salire sulla mia
jeep per percorrere gli oltre cento chilometri che si interpongono tra noi
montanari e l’era moderna. Si tratta in prevalenza di questioni burocratiche,
legate alle nostre proprietà, che si possono sbrigare solo in alcuni uffici
cittadini o per incontrare il mio tatuatore di fiducia. Iniziai moltissimi anni fa
a farmi decorare la pelle. Poco più che ventenne, mi feci disegnare sulla parte
interna del braccio sinistro, proprio a ridosso della linea che separa il bicipite
dal tricipite, un piccolo omaggio in memoria di Coal, il pastore belga che mi
aveva accompagnato fin dall’infanzia. Chi non ha mai vissuto con un cane,
non sa, non può sapere il vero significato della parola lealtà. Non può capire
in pieno cosa sia l’abnegazione, la capacità di sconfiggere il tempo grazie a
una pazienza che si nutre della fiducia che riponi nell’essere amato.
Iniziai tatuandomi il nome del mio cane, il giorno in cui lo persi, e poi
non ho più smesso. Non saprei neppure dire con esattezza quanti tatuaggi io
abbia. Per farlo dovrei contarli e non l’ho mai fatto. Ne ho ovunque, anche
sulle mani.
Mi piace indossare anelli d’acciaio o d’argento, ma solo nel tempo
libero. Mai quando sono al lavoro. Ne ho persino alcuni con delle pietre dure,
come il diaspro, l’occhio di tigre, e l’onice nera. Non ho l’aspetto del classico
montanaro, ma anche da noi i tempi stanno cambiando. Molto più lentamente
che altrove, ma anche qui inizia a muoversi qualcosa. Per il resto, il mio
aspetto non differisce molto da quello degli altri uomini del posto. Barba,
jeans, stivali, camicie a quadri. A seconda della stagione, il cappello.
Possiamo dire che, dalle nostre parti, gradiamo la praticità. Metà delle cose
che facciamo hanno a che fare con il territorio che ci circonda, quindi sarebbe
davvero inusuale scegliere un abbigliamento diverso.
Non ho mai nascosto quello che sono, a nessuno, ma non l’ho neppure
mai sbandierato. Alcuni lo sanno, altri lo immaginano, visto che alla mia età
non ho ancora preso moglie e non sono di certo mancate le occasioni. Molti
altri credono che io sia un dongiovanni, un dissoluto Casanova con una
femmina a disposizione a ogni angolo di strada. Alcuni uomini mi guardano
addirittura con sospetto, temendo chissà quale pericolo per le loro consorti.
Sono quelli che non riescono a vedere quanto non concepiscono come
possibile. Il fatto è che a me le donne non sono mai piaciute. Non ho mai
provato il minimo interesse nei loro confronti e le uniche due con le quali
sono stato, non hanno rappresentato altro che uno sfogo in una fase della mia
vita, la fine dell’adolescenza, durante la quale la voglia di fare sesso era
persino più forte del mio vero orientamento sessuale. Con gli uomini venuti
subito dopo, non posso certo dire che sia andata molto meglio. Ho avuto solo
una storia, ma è stato molti anni fa. Lui non riusciva ad accettarsi e il nostro è
stato un tira e molla andato avanti per un paio d’anni. Quando lo cercavo
troppo, scappava. Quando smettevo di cercarlo, tornava da me. Si faceva
scopare, a volte con urgenza, altre si concedeva a lungo, anche più volte
nell’arco della stessa notte, poi tornavano i sensi di colpa e cambiava di
nuovo. Continuava a ripetere a se stesso e a me che quanto facevamo non
poteva essere normale. Io, ai suoi occhi, ero una specie di porco assatanato,
perché mi piaceva scoparlo. Lui, invece, credeva di essere un depravato che
godeva nel farsi scopare. Questo naturalmente era solo quello che vedeva lui,
io vedevo altro, ma del mio punto di vista non gli è mai importato a
sufficienza, tant’è che un bel giorno si mise in viaggio e io non riuscii a farlo
rimanere. La sua partenza mi fece perdere dieci chili e innumerevoli ore di
sonno. Lo aspettai per oltre un anno, poi capii che dovevo voltare pagina.
Ricominciai a dormire e recuperai i chili che avevo perso.
Da allora non ho avuto altre storie, solo delle amicizie con qualche
beneficio, mettiamola così. Capita, ogni tanto, quando sono solo in casa, che
mi masturbi. Forse capita più che ogni tanto. Quando sono stanco di segarmi,
invece, può succedere che mi rechi in uno dei posti in cui si possono
incontrare uomini consenzienti. Il più frequentato in zona è un autogrill a una
quindicina di chilometri da qui. Vado lì, mi bevo una birra, mi fumo una
sigaretta, faccio un giro o aspetto in macchina, e, se capita qualcuno che mi
piace a sufficienza, mi sfogo. L’ultima volta che mi è capitato di andarci sarà
stato tre settimane fa. Dopo mezz’ora che me ne stavo chiuso in macchina,
l’ho visto. Un ragazzo giovane, poco più che ventenne, come piace a me, si
aggirava per i parcheggi ed era evidente che non fosse lì per caso, così sono
sceso dall’auto e gli sono andato incontro. Ho capito subito di piacergli, l’ho
capito da come mi guardava. Mi sono presentato e, quando lo faccio, anche in
quelle occasioni, dico sempre il mio vero nome e gli ho stretto forte la mano.
Quando mi ha chiesto l’età, non ho mentito e gli ho detto di avere trentotto
anni. Lui ne ha dichiarati ventiquattro e mi ha raccontato che se ne stava
andando in giro per l’Italia, senza una meta precisa, ma solo con la voglia di
non fermarsi troppi giorni nello stesso posto. Quando gli ho chiesto se la
famiglia ne fosse al corrente, si è mantenuto sul vago. Faceva lavoretti
saltuari, come il lavapiatti nei ristoranti che incontrava nel suo costante
muoversi da un posto all’altro e, ogni tanto, chiedeva un piccolo contributo in
giro in cambio di un po’ di compagnia. Mi avrebbe dato il culo per venti
euro, ma io gliene ho regalati cinquanta. Ci siamo appartati in uno dei bagni
dell’autogrill e un uomo ci ha seguiti e si è chiuso nel bagno a fianco al
nostro. Il ragazzo è stato oltremodo disponibile e, dopo avermelo succhiato,
mettendosi in ginocchio lì, in quel cesso, si è fatto inculare, in piedi,
schiacciato tra me e la parete, per tutto il tempo in cui ne ho avuto voglia.
L’uomo chiuso nel cesso accanto, invece, non ha fatto altro che masturbarsi e
ansimare, sentendo noi che scopavamo oltre la parete.
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